“Certamente la competenza tecnica è essenziale per svolgere qualsiasi professione,
compresa quella educativa, ma non basta per abitare con sensatezza il mondo dell’educazione”[1]
(L. Mortari)
[1] Luigina Mortari, Apprendere dall’esperienza, Roma 2020, pp.19
La scuola è al centro di ogni dibattito. Non accadeva da molto tempo, così che da Cenerentola essa si ritrova a ricoprire il ruolo di protagonista. Il dibattito è acceso, le posizioni divergenti e spesso inconciliabili. Scuole aperte sì, no, come, quando. Tutti ad arrovellarsi per individuare le modalità per arrivare, entrare e uscire dagli edifici scolastici, per mantenere il distanziamento in aule troppo piccole e classi numerose (criticità elusa da anni), per osservare le norme igienico-sanitarie, per tutelare gli insegnanti tra i più anziani d’Europa (il 53% è over 50, mentre il 17% ha più di 60 anni)[1] e meno valorizzati professionalmente ed economicamente. Tuttavia si ha l’impressione che l’attenzione sia rivolta quasi esclusivamente ai tecnicismi, alle strategie, a quelle minuzie che possano consentire di entrare fisicamente in aula. Ma è chiaro che non basta, almeno non più. I tempi cosiddetti emergenziali si allungano e ci coinvolgeranno per diversi mesi, forse anni. Bisogna urgentemente ritrovare un altro sguardo: quello pedagogico- educativo. È un dovere etico e deontologico perchè è in gioco un’intera generazione e forse più di una, il futuro. Non è più tempo di discorsi retorici e ripetitivi, non è più tempo di fare sterile demagogia. Ho tra le mani uno dei testi di Paulo Freire, “Pedagogia dell’autonomia. Saperi necessari per la pratica educativa”. Ci ritrovo le mie note a margine, i capoversi evidenziati, le sottolineature. Ogni volta che ne rileggo i capitoli è come se lo vedessi per la prima volta. Il nostro Freire riteneva che un insegnante deve possedere rigore metodologico, capacità di ricerca, rispetto degli alunni, spirito critico, gusto estetico ed etico, coerenza, coraggio di rischiare e tanto altro. Quanti discorsi su questi temi, quanti incontri, quanti dibattiti, quanti sogni, quanta appassionante progettualità e progettazione, quante letture nel tempo! Quanti insegnanti hanno perso le notti a pensare come creare una scuola “bella”, riuscendoci più o meno, ma sempre animati dall’etica educativa. Non è solo nostalgia, sappiamo che ci attende un tempo nuovo, che raggiungeremo un’altra normalità ma, per favore, non disperdiamo un capitale educativo che pur tra alti e bassi, è di grande bellezza e che oggi rischia di andare perduto. Continuo a pormi domande, alle quali peraltro non ho risposte preconfezionate ed è proprio per questo che auspico un tavolo di lavoro composto da pedagogisti, operatori del mondo della scuola. Mi riferisco a coloro che lavorano sul campo, a quelli che conoscono gli studenti e i loro bisogni, che affrontano ogni giorno problemi concreti, che cercano soluzioni, i maestri, i soli in grado di affiancare efficacemente i numerosi comitati tecnico-scientifici. Quali sono le domande? Vista la crescita esponenziale di alunni diagnosticati negli ultimi anni, mi chiedo: dove sono finiti e come affrontano i processi di apprendimento tutti quegli studenti con diagnosi di difficoltà o disturbi dell’apprendimento? Come vivono quelli con diagnosi di disturbo dell’attenzione e dell’iperattività (ADHD)? E quelli con disturbo oppositivo-provocatorio? E quelli che numerosi accedevano agli sportelli di ascolto psicologico o psico-pedagogico, alcuni dei quali con problemi molto seri? Come si sta garantendo l’apprendimento agli studenti stranieri che non hanno ancora imparato la seconda lingua (l’italiano), come usano la DaD? Ne hanno la possibilità concreta? La condizione dei giovani hikikomori come si sta evolvendo? E il cyberbullismo? E le dipendenze? Le ultime statistiche rilevano un aumento dei casi di alcolismo, di uso di sostanze stupefacenti (acquistate online) e di disturbi psichici negli adolescenti. E quei giovanissimi che vivono in comunità che, come accaduto per le RSA, sono stati sottoposti a restrizioni nei contatti con familiari, che cosa provano? Ma penso anche alla didattica e mi chiedo: quale formazione per lavorare con la DaD? Che fine hanno fatto i progetti di educazione emotivo-affettiva? Infine mi chiedo se sia giusto contare solo sul senso di responsabilità, di dedizione o sulla vocazione educativa del singolo docente o della singola scuola. Quante, quante domande! Negli ultimi mesi finalmente, bene o male, l’attenzione è stata almeno rivolta agli alunni con disabilità, ma di tutte le altre situazioni poco o nulla è stato detto o fatto, né sono sufficienti le iniziative di formazione, altrettante emergenziali, offerte online. Ebbene, io non ho risposte, so che imparare è un processo continuo e infinito che si sviluppa e si rinnova sulla linea del tempo, con i suoi eventi, con le esperienze sempre nuove e così ricomincio dalle domande, il primo indispensabile passo per individuare possibili soluzioni ragionevoli e umanizzate, grazie a un dialogo competente e armonioso. Freire amava dire che “l’uomo è parola, è dialogo: soltanto un’educazione fondata su un’antropologia dialogale può corrispondere perciò alle più intime istanze di ciascuno”. Ho solo qualche certezza: so per certo che la scuola sta dentro un tessuto sociale e politico complesso, che essa non è disgiunta da altri sistemi, so che la vita di un Paese democratico è un intreccio di idee, di vite e che nulla è a sé. So per certo che la scuola deve stare al centro di un urgentissimo e macro dibattito che coinvolga ogni settore istituzionale e governativo, so che Cultura, Istruzione, Formazione rappresentano la chiave del futuro. So che occorre un’etica della responsabilità da parte di ogni adulto educante esistente per evitare un drastico processo di disempowerment nei nostri giovani. Bisogna osservare lo svolgersi della vita di un Paese, bisogna provare dolore e un infimo senso di colpa, come cittadini, nel guardarsi intorno e incontrare adolescenti che tentano, anche sopravvenendo alle regole, di stare insieme. O quelli, che appena possibile, li trovi a bighellonare nei centri commerciali, o quelli che si rinchiudono del tutto in camera a giocare alla play station oppure a chissà che altro. Sì, perché molti dei nostri giovanissimi trascorrono ore, notti, a giocare con amici virtuali, alquanto ignari dei pericoli della rete se non già in pericolo, sono quelli che se prima rappresentavano un problema, ora sono addirittura implicitamente autorizzati a farlo. Infine ci sono tanti giovani che trovano comodo imparare da casa, soli. La pandemia ha penalizzato la socializzazione e se noi adulti ce ne possiamo fare anche una ragione e comprendere appieno la situazione, loro, gli adolescenti, i bambini, corpi e menti in formazione, morbidi quanto assorbenti, che cosa porteranno con loro? Si respira troppo silenzio e tolto qualche caso, colgo soprattutto assuefazione. Certo, una pandemia è una pandemia, si capovolgono vite, modus vivendi. Facile fare domande, accusare, criticare, polemizzare. Ma proprio per questo auspico una coralità armoniosa d’intenti, l’impegno a occuparsi tanto di tecnicismi quanto di una adeguata pedagogia e soprattutto di Educazione, senza autoreferenzialismi, senza quell’improbabile saccenza che scorre ovunque. A ognuno il suo, ma nell’ottica di Saperi che s’incontrano per rispondere alle domande animati da un pensiero critico e riflessivo, dalla prospettiva di co-costruzione sinergica. Non sono sufficienti i tecnicismi, la scuola va ripensata. Occorrono impegno, volontà, fatica, competenze, autentico interesse per l’Educazione. Il futuro delle nuove generazioni è a rischio di anonimia e non possiamo permetterlo!
[1] https://www.tecnicadellascuola.it/litalia-ha-il-primato-dei-docenti-piu-anziani-deuropa-tutti-i-numeri