Nella tradizione letteraria italiana i personaggi di una storia, quanto più siano dei “caratteri”, tanto più si ritagliano un loro spazio per la luce che su di loro gettano personaggi secondari, la cui funzione è appunto quella di far vivere il protagonista che tale a tutta prima non si manifesta.

Di qui i dialoghi con i rituali della comunicazione quotidiana e i convenevoli di una “buona educazione” che nasconde a tratti la diffusa concessione alla morale corrente, al perbenismo di vecchia ma resintetissima marca, qui denunciato, se la nostra lettura tra le righe non ci inganna, con un garbo sottile che nasconde una studiata malizia.

I giorni dell’oleandro di Gianni Stornello, recentemente apparso per i tipi dell’editore Laurana di Milano, racconta proprio qualcosa del genere. Gli oleandri non ci sono più. In omaggio a una  superstizione locale sono stati infatti sostituiti con in i tigli che porterebbero fortuna. Il motivo  dominante del romanzo è l’indifferenza alla bellezza che si rimprovera – a tratti apertamente – alle tante figure che si muovono nello scenario della Sicilia Orientale. Bellezza che oltre a essere esteriore e visibile si fa all’occorrenza anche interiore.

Qui ci pare emerga il tratto più personale dello scrittore. La bellezza è per lui una cosa seria e arriva a farti capire il dispetto per quanti, inseguendo affari poco chiari, contribuiscono alla dispersione del patrimonio archeologico, seppellendo, per poco che affiori da un lontano passato, le glorie di un’arte irripetibile di cui è piena la Sicilia.

Proprio questa bellezza che sfiora i personaggi, giungendo in alcuni casi a toccarli, è raccontata dall’autore con un garbato filo di finta rassegnazione e di ironia.

Sicilianità contro sicilitudine? Direi di sì, se la sicilianità si intenda quale legittimo amore viscerale per una terra che non si può abbandonare, tanto le apparteniamo.

In questo senso la sicilitudine, una sorta di malattia di cui soffrirebbero i siciliani – per come appaiono ai conterranei rifugiatisi altrove – si contrappone alla sicilianità di chi resta perché gli costa troppo allontanarsi da un mondo che è la chiave di tutto, secondo un motto di Goethe che l’autore tiene a richiamare esplicitamente nel romanzo. Ma poi la sicilianità comporta sofferenza, infatti accade che qualsiasi cosa sia sospettata d’essere fonte di ricchezza, diventa affare che, come tale, intriga  tutti. E tutti sembrano vivere della prosa ignorando la poesia che pure sprigiona da certi luoghi incantati e dalla memoria di un passato ora lontano, ora remoto, ora perfino perduto.

La matassa, che si raccoglie attorno a più storie, si sbroglia sul caso del prufissuri rê carti protagonista, secondo noi, volutamente mancato, ma non per questo meno autenticamente protagonista, di tutta una storia in cui i giorni dell’oleandro sono un passato che non può tornare, anzi che non deve tornare.

Siamo in Sicilia, dove accanto a cose che cambiano e, a dispetto dei cambiamenti, tante cose restano  come erano sempre state. A cominciare e a finire dai sentimenti.