Quando la Gran Bretagna è entrata nell’Unione Europea avevo 20 anni. Amavo l’Inghilterra. Più di qualsiasi altro Paese al mondo. Sognavo Londra. Più di Parigi o New York. Desideravo conoscere quella cultura e quella gente e la musica, che era la colonna sonora di quegli indimenticabili anni.
La Gran Bretagna aveva sconfitto la Germania, liberato l’Italia dai fascisti, combattuto con gli Alleati per ridare dignità e credibilità a questa nostra povera e martoriata nazione ridotta in miseria. Mussolini, che come tutti i dittatori era dotato di modesta intelligenza e di molta vanagloria, irrideva gli inglesi perché prendevano il tè alle cinque del pomeriggio. E perché il sabato in Inghilterra era giorno festivo. Così, s’inventò il sabato fascista, che di fatto era il sabato inglese. Con Mussolini è andata com’è andata, se non fosse stato così vile da fuggire travestito da tedesco ed essere, per fortuna, giustiziato quasi al confine con la Svizzera, gli inglesi lo avrebbero forse fatto prigioniero. E chissà che processo, vederlo alla sbarra in Inghilterra, nella patria del diritto, per crimini contro l’umanità sarebbe stato molto eccitante. Più di Adolf Eichmann giustiziato il Israele.
Amavo l’Inghilterra e Londra fu la mia prima tappa di un viaggio indimenticabile, con mia sorella, in piena estate. Quando ormai da europei era sufficiente la carta d’identità. In una settimana l’abbiamo battuta miglio per miglio, museo per museo, Carnaby Street isolato per isolato.
E serate intere a Fleet Street. Adoravo già allora quel giornalismo così diverso dal nostro. All’ora di chiusura delle edizioni dei vari quotidiani (oggi tutti trasferiti altrove), passeggiavamo avanti e indietro nella via dei giornali. Povera sorella mia, e negli anni dopo anche mia moglie, chissà come si annoiavano. Ma io volevo stare in quello che consideravo il cuore del giornalismo mondiale. Me ne stavo davanti ai grandi passi carrai che scendono verso il Tamigi, per vedere uscire i furgoni, carichi di edizioni appena stampate. E poi quel pub, nel sottopasso della ferrovia, dove i giornalisti scendevano con le loro copie sotto il braccio e bevevano birra e fumavano con la cravatta slacciata e le scarpe nere.
Sono stati anni memorabili. L’idea che avevo di diventare Jim Gannon è nata da un film americano, ma il posto vero, genuino, amato del giornalismo era Londra. Ci tornerò, anche per ragioni famigliari. Ma con il passaporto e con grande tristezza, per il Paese dei miei sogni di ragazzo che ci ha lasciati soli, dopo 47 anni, per me, di vero amore.