Dopo averlo deriso, lo spogliarono del mantello e gli rimisero le sue vesti, poi lo condussero via per crocifiggerlo. Mentre uscivano, incontrarono un uomo di Cirene, chiamato Simone, e lo costrinsero a portare la sua croce. Giunti al luogo detto Gòlgota, che significa «Luogo del cranio», gli diedero da bere vino mescolato con fiele. Egli lo assaggiò, ma non ne volle bere. Dopo averlo crocifisso, si divisero le sue vesti, tirandole a sorte. Poi, seduti, gli facevano la guardia. Al di sopra del suo capo posero il motivo scritto della sua condanna: «Costui è Gesù, il re dei Giudei». Insieme a lui vennero crocifissi due ladroni, uno a destra e uno a sinistra. Matteo, 27, 31-38

Quando a Gaudenzio Ferrari viene commissionato il grande affresco della parete di Santa Maria delle Grazie a Varallo è un artista ormai conosciuto, con una solida preparazione tecnica, ma anche teologica. I ventun riquadri che, dal 1513, ornano il tramezzo della chiesa francescana ne sono la prova: lui, pittore valligiano formatosi a Milano sotto l’egida leonardesca e ben consapevole dell’eredità spanzottiana, riesce a dar vita a un complesso figurativo di indubbia efficacia liturgica, ma anche umana. Il pathos che traspare dalle immagini dipinte tocca il cuore dei riguardanti che, di fronte al dolore condiviso dai protagonisti delle scene, non possono che commuoversi e divenire protagonisti della storia sacra, riconoscendosi tra i tanti uomini e le tante donne che la animano.
La scena è divisa su due livelli, che mettono in relazione cielo e terra: nella parte bassa una congerie di corpi in movimento affastella lo spazio; sulla sinistra le Pie donne, il cui dolore, composto ma devastante, è ben rappresentato dall’atteggiamento di Maria, che sembra divenire cosa sola con le donne che la sorreggono, allargando le braccia come in croce, a condividere il dolore del figlio; a destra, i soldati si giocano la veste ai dadi, come ricordato nelle Sacre Scritture, attorniati da figuranti che partecipano a quanto descritto con curiosità o, addirittura, con indifferenza. Tra questi, un uomo con barba, baffi e capelli rossi, vestito di grigio e con il rocchino, il mantello dei pellegrini su cui campeggiano i simboli di San Giacomo: è Gaudenzio stesso, che si ritrae ai piedi della croce con un cagnolino, simbolo di fedeltà, che si appoggia alla sua gamba. Il suo sguardo, franco e sincero, è tutto per noi che, grazie a lui, riusciamo ad intessere un muto dialogo con i diversi protagonisti. Lo strazio della Maddalena ai piedi della croce è quasi stemperato dalle altre presenze, umane e animali: gli straordinari cavalli di Gaudenzio sembrano muoversi nello spazio ridotto, dando perfettamente l’idea di confusione emotiva che sembra pervadere gli astanti. I cavalli e alcuni personaggi presentano dei particolari aggettanti, ottenuti con pastiglie di stucco per amplificare la tridimensionalità dell’insieme. Lo sfondato si apre su un cielo terso e sulla raffigurazione di una città, che da terrestre diviene celeste, quasi la Civitas Dei di Sant’Agostino, non solo città reale, ma condizione spirituale dell’uomo alla ricerca della sua salvezza. La parte alta, il cielo, è densa di figure di straordinaria bellezza: al centro campeggia Cristo, attorniato da angeli, la cui evidente disperazione contrasta con la serenità che promana dal viso di Gesù, ormai pronto a sorbire il calice della Passione. I due ladroni con il loro atteggiamento anticipano quella che sarà la loro sorte: Gesù dice a quello alla sua destra «In verità ti dico: Oggi sarai con me in Paradiso»” (Luca 23, 42-43). Un angelo, sopra la croce, sta già portando in cielo la sua animula, figura di piccole dimensioni che riprende le fattezze del ladrone, mentre quello a sinistra è tormentato da un diavolaccio nero che anticipa la sua discesa agli inferi. In quest’opera eccezionale, con l’immediatezza che gli è propria, Gaudenzio riesce a trasformare il dettato evangelico in Biblia Pauperum, un percorso la cui vivezza è ancora evidente a secoli di distanza. Federica Mingozzi