Il termine eclettismo (dal greco eklektekós da ekleghein, scegliere, selezionare) indica, nell’ambito delle arti e delle scienze, l’atteggiamento di chi sceglie in diverse dottrine ciò che è affine e cerca di armonizzarlo in una nuova sintesi. Gli oppositori a questo metodo lo considerano una acritica e incoerente mescolanza di elementi teorici che finisce con il determinare un generico sincretismo.

   Dall’eclettismo diffusosi in età ellenistico-romana fino al Diderot del XVIII secolo, e autori successivi, il dibattito filosofico sul tema ha certamente avuto il suo interesse ma non è di scuole filosofiche che intendo oggi discutere bensì delle mie convinzioni personali sulla materia, maturate con l’esperienza.

Tanti autori, in particolare novecenteschi, potrebbero soccorrermi nell’esposizione di quanto mi accingo a sostenere ma voglio fare da solo, usando un linguaggio semplice e diretto, privo di rigidità ideologiche.

   Non esiste teoria, umanistica o scientifica, che non sia stata prima o poi confutata, che non abbia avuto una nascita e un declino, che non sia fallita. La migliore delle teorie è dunque e sempre portatrice di idee da sottoporre a falsificabilità, come affermerebbe il grande scienziato ed epistemologo austriaco Karl Popper. Falsificabilità di idee sempre avversabili e comunque destinate nel tempo al superamento.

È dunque bene che una teoria, a maggior ragione un’ideologia, sappia aprirsi al dialogo e al confronto sereno con critici ed antagonisti. E preciso sin d’ora che una teoria siffatta è a me gradita, mentre è da me radicalmente respinta un’altra teoria fondata essenzialmente su principi di fede.

   Da questa premessa deriva il mio apprezzamento per l’eclettismo teorico, per quelle teorie che, pur nella ricerca e fondamento del rigore indispensabile, sappiano apprezzare il valore di principi ed elementi cognitivi di altre teorie, accettando il confronto, sapendo addirittura prendere in prestito, principi e cognizioni, per allargare il campo degli esperimenti o addirittura per farli propri. Una teoria con tale carattere è peraltro sempre aperta alla ricerca e al dialogo, sa sempre trovare lo spazio necessario per evolversi o per uscire di scena quando è il suo tempo con la dignità di chi ha svolto seriamente la propria missione.

   Detestabile l’autoreferenzialismo di chi celebra la grandezza delle proprie idee, apprezzabile l’atteggiamento di chi è invece sempre disponibile a discuterle, di chi sa essere sempre in gioco per migliorare la propria ricerca e contribuire coralmente al miglioramento della lettura del mondo.

   Da un punto di vista esistenziale credo che il teorico possa avere momenti della propria storia in cui debba schierarsi anche pericolosamente, fondamentale sarà allora per lui la consapevolezza della torsione intellettuale che è chiamato a compiere in quei momenti e quindi la necessità di vigilare su eventuali errori o sulla necessità di un percorso di revisione.

   C’è infine il tema degli specialismi. Non possiamo certo farne a meno perché abbiamo bisogno di chi sa fare le cose e di chi si dedica a tempo pieno alla crescita di una tecnica, di una professione, di una scienza applicata. Ma attenzione, ho fatto ripetutamente esperienza nella mia vita di incontrare persone di valore, che nel loro campo, nella loro specializzazione, nelle proprie pratiche rinunciano per cattivo uso della genialità o per stupidità esistenziale – che è cosa diversa dalla stupidità intellettuale – a guardare il mondo con le lenti dell’umano che ha a cuore le sorti dell’umanità e non le sorti delle proprie presunte ragioni.

   È più evidente questo campo d’indagine restringendo l’osservazione del fenomeno. Immaginiamo un tavolo composto da alcuni cervelli, essi devono lavorare alla realizzazione di un progetto complesso per sua natura, dove le teorie scientifiche, le tecniche, le professionalità devono abbandonare i linguaggi specifici per costruire un comune percorso utile alla realizzazione del progetto. Spesso questa operazione d’incontro non è scontata, prevalgono nei singoli spigolosità caratteriali, chiusure specialistiche o teoriche, talvolta ragioni di potere personale. Essi insomma non riescono a declinare il proprio compito in modo coerente al fine comune. In questi casi occorre un rimedio drastico: imporre al tavolo una personalità eclettica capace di fondare una leadership intorno alla costruzione di un nuovo linguaggio che unisca o faccia incontrare e comunicare tutti i linguaggi utili, per lavorare alla costruzione dell’obiettivo comune.

  Esistono figure manageriali o politiche capaci di questo carisma, si tratta di leader umili ed esperti, conoscitori di uomini e dotati di tanto eclettismo.