Tra le cose assai apprezzabili scritte da Gianni Rodari, c’è una deliziosa filastrocca sul condizionale, quella che garbatamente inizia Vorrei, direi, farei…” / Che maniere raffinate / ha il condizionale.

Gran parte della crisi del congiuntivo nasce dal fatto che il condizionale va scomparendo. Il condizionale si lega al congiuntivo, il quale si coniuga spontaneamente a lui. Qualche esempio: “Vorrei (se potessi)”; “Direi” (se mi chiedessero): “Farei (se ne avessi l’opportunità)”. Sempre più spesso ormai quelle che dovrebbero presentarsi come congetture, illazioni, opinioni diventano fatti e ai fatti si mescolano realtà e fantasia in un brodo che apparentemente dà freschezza a un’esposizione disinvolta, tagliente all’occorrenza e, magari anche per questo, convincente. Accade allora che quel che leggiamo appare vero, chiaro, trasparente, evidente addirittura. Dopo però, a una lettura più scrupolosa, il brodo, per poco che si posi, diventa brodaglia peggiore di quella del collegio Pierpaolo Pierpaoli dove Giannino Stoppani medita la sua rivolta al grido di “viva la pappa col pomodoro!”.

Ancora per un po’ il modo imperativo, con quel suo atteggiamento da rompiscatole che ti distoglie da qualsiasi piacevole distrazione e ti richiama al “dovere”, latiterà negli spazi della comunicazione ufficiale perché poco urbano. È certo tuttavia che ha un futuro. Al presente funziona per la pubblicità: “Corri a comprarlo (è conveniente)!”, “Sfrutta l’occasione (e non fare il babbeo)!”, “Prenota l’acquisto (t’arriva perfino un regalo, oltre allo sconto. Hai capito?)” ecc. ecc. 

Per il momento è l’indicativo, con la sua mano chiusa a pugno e un dito in alto ad ammonirci.

Informazioni che meriterebbero l’uso del condizionale si fanno assertive, perentorie. Chi sia stato visto da un testimone compiere un reato, si dà sicuramente per colpevole.

Il giornalista dovrebbe sapere quale terribile potere abbia la parola scritta in un paese dove sono tanti gli ingenui, i superficiali, gli analfabeti funzionali. “Sta scritto sul giornale” significa per tanti “è vero”. Altrimenti, pensano, non lo scrivevano (idest “non lo avrebbero scritto”). E invece lo scrivono. Sono tanti che, leggendo una notizia del genere, non si domandano se il testimone si trovasse a venti o a tre metri di distanza, se veda perfettamente, se non abbia un qualche interesse ad accusare un innocente, se non sia un esaltato che, nella speranza di veder pubblicata sul giornale una sua foto o il proprio nome, racconta quel che gli passa per la mente. A questo punto qualcuno dei tanti che non si pongono domande del genere arriva magari a pensare che “in certi casi” tanto varrebbe procedere per direttissima, cacciando immediatamente in galera il “reo”, ignorando che occorre, per evidenti ragioni, che un’autorità investita di un ruolo pubblico stabilisca che cosa sia realmente accaduto.

Né i mali dell’indicativo, che ostenta una saggezza che non possiede, finiscono qui. C’è l’equivoco di dire in poche parole quel che meriterebbe maggiori riguardi alla dea verità, capricciosa e sfuggente.

“Secondo i dati ISTAT la disoccupazione è in diminuzione!” E tu che sei tra i malfidati e maliziosi interpreti della pagina scritta, traduci mentalmente: “Stando ai dati ISTAT, la disoccupazione sarebbe in diminuzione.” E quel sarebbe si rivela veramente opportuno, in quanto sollecita l’immaginazione a colmare un vuoto che altrimenti non si vede. Ciò accade non perché i dati statistici non siano veritieri, vanno semplicemente interpretati. Lessi una volta che un umorista inglese aveva detto vari decenni fa “la statistica è come il bikini, rivela molto ma nasconde l’essenziale”. In uno stile meno vagamente sessista, il nostro Trilussa sosteneva che “per la statistica abbiamo mangiato mezzo pollo a testa. In realtà, io ne ho mangiato uno e tu niente”. Circa la dis-occupazione sarebbe da far presente che c’è il lavoro nero, che è oltretutto sottopagato; c’è chi lavora per il collega raccomandato e raccomandatissimo che fa poco o nulla; c’è un orario minimo di lavoro; c’è la sotto-occupazione; ci sono i lavori a rischio con incidenti anche mortali. Prezzi variamente alti che attualmente comporta la cosiddetta lotta alla dis-occupazione.

Quanto questa lotta è efficace? Si legge sempre più di frequente di figli che non denunciano la morte dei vecchi genitori per continuare a riscuoterne la pensione. Il fatto è certamente riprovevole ma rivela due pesanti verità. La prima è che la povertà con annessi e connessi (ignoranza, miserie morali ecc.) è in aumento. La seconda è che la disoccupazione giovanile si traduce in un mancato inserimento nel mondo della realtà nel quale impariamo a vivere, assumendoci delle responsabilità conseguenti al lavoro svolto e che soprattutto si sia imparato a svolgere più o meno correttamente e con qualche soddisfazione.

Ma non si dovrebbe lavorare per vivere e per vivere dignitosamente?

Non mi pare che un mondo che ignora il condizionale, e non sa porsi delle domande per argomentare intelligentemente sui fatti che accadono o che sono per accadere, aiuti granché a risolvere situazioni che, nel tempo, minacciano di farsi sempre più intricate e complesse.