(breve nota al libro “E’il modo ancor m’offende, di Maria Dell’Anno, San Paolo editore, 2022)
“E‘l modo ancor m’offende”: cosi si esprimeva Francesca Da Polenta, nel V canto dell’Inferno, alla quale Dante Alighieri aveva dato voce con la narrazione del suo brutale assassinio da parte del marito, Gianciotto Malatesta. Una vicenda, quella di Francesca, mamma di una bambina di pochi anni, Concordia, rimasta orfana della propria mamma a seguito del brutale episodio.
La vicenda di Francesca, avvenuta ormai oltre settecento anni fa, non è, purtroppo molto diversa da molte vicende che oggi indichiamo con un termine che all’epoca del sommo Poeta, del quale abbiamo celebrato i 700 anni dalla nascita lo scorso anno, non esisteva ancora: femminicidio.
Infatti, femminicidio è un termine recente, coniato dalla criminologa Diana Russell, che lo usò per la prima volta nel 1992, nel libro”Femicide”, spiegandone così il significato come categoria criminologica:“Il concetto di femmicidio si estende aldilà della definizione giuridica di assassinio ed include quelle situazioni in cui la morte della donna rappresenta l’esito o la conseguenza di atteggiamenti o pratiche sociali misogine”.
Successivamente, l’antropologa messicana Marcela Lagarde, definiva il femminicidio come “la forma estrema di violenza contro le donne, prodotto della violazione dei loro diritti umani in ambito pubblico e privato, attraverso condotte misogine – maltrattamenti, violenza fisica, psicologica, sessuale, educativa, sul lavoro, economica, patrimoniale, familiare , comunitaria, istituzionale – che comportano l’impunità delle condotte in essere tanto a livello sociale quanto dello Stato”
Quello di Francesca Da Polenta è, a tutti gli effetti un fenninicidio, il primo della serie che l’autrice, seguendo lo stile narrativo della Commedia, descrive, facendo raccontare i fatti e il travaglio interiore vissuto direttamente alle vittime di questa barbarie, del quale tutti i giorni leggiamo sulla stampa e sui mezzi di informazione on line,oltre che alla televisione e sui c.d. “social media”.
La violenza di genere ha proporzioni davvero allarmanti: solo nel 2021, come ricorda l’autrice, giurista e criminologa, ma come lei stessa ricorda, soprattutto scrittrice, i femminicidi sono stati 109 e sono in continuo aumento. E come ben precisa Maria Dell’Anno, la violenza non deriva dalla malattia, dal raptus, dalla follia, “come molta stampa continua colpevolmente a volerci far credere” e viene esercitata dagli uomini quando le donne rivendicano uno spazio di autonomia, di libertà, prima sacrificata. La violenza di genere non è una questione di istruzione, di cultura, di censo, come ancora molti, soprattutto nella classe medio – alta pensano, ma è una questione di potere, di potere millenario che l’emancipazione femminile ha, in parte, detronizzato.
Il maggior pregio del libro, a modesto parere dello scrivente è, però, non quello di parlare a tutti noi, con cenni tecnico – giuridici sul fenomeno della violenza di genere, ma quello di immaginare cosa abbiano provato le vittime di femminicidio prima di essere uccise, cosa abbiano dovuto subire prima di una morte ingiusta e violenta, quali tragedie familiari siano celate dal fatto più eclatante, ovvero la morte di una donna, molto spesso di una mamma. Le voci di tutte le donne che raccontano, in prima persona, con la voce dell’autrice, le violenze e lo strazio psicologico che ha attraversato le loro menti prima di lasciare questo mondo, sono voci di lotta per la dignità e per la famiglia (purtroppo invano), di disperazione, di esasperazione, spesso di solitudine, di frustrazione nel constatare uno Stato che da un lato ha adottato normative avanzate in materia, ma che dall’altro non riesce ad evitare, con misure preventive, epiloghi tragici di vicende familiari complesse e dolorose, sottoponendo, spesso, le donne che denunciano violenze, a vittimizzazione secondaria, come più volte ha rilevato la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo. E’ la rassegnazione, la disperazione, la solitudine il sentimento che più spesso emerge da queste storie, la preoccupazione per i figli che rimarranno orfani, senza poter capire il perché di queste tragedie, ma anche il coraggio di essere sé stesse sino all’ultimo, di poter cambiare le cose. Proprio per questo motivo, in questo breve commento al volume, che consiglio veramente di leggere soprattutto nelle scuole, vorrei ricordare tutte le vittime di femminicidio ricordate nel libro, quali simboli di tutte le donne uccise o maltrattate solo perché donne e che non si sono piegate agli stereotipi e alle convenzioni sociali:Francesca Da Polenta, meglio nota come Francesca Da Rimini e nel nostro tempo Maria Cristina Omes, Marianna Manduca, Alice Bredice, Barbara Cicioni, Giulia Galiotto, Luciana Biggi e Antonella Multari, Marilia Rodrigues Silva Martins, Giada Anteghini, Stefania Erminia Noce.
Un quadro a tinte fosche, dunque: in realtà no, perché un rimedio a tutto questo, l’autrice lo evidenzia, come pone in risalto il punto problematico di tutta la questione. Scrive Maria Dell’Anno:“Fintanto che ci si rifiuterà di riconoscere che la violenza maschile contro le donne non riguarda solo alcuni uomini pazzi o malati e alcune donne ignoranti e socialmente emarginate, fintanti che ci si rifiuterà di riconoscere che è un problema che ci riguarda tutte e tutti e che va combattuto fin dai nostri primi giorni di vita, ebbene fino a che non si riconoscerà tutto questo noi donne continueremo a morire. E continueremo a morire con la benedizione del nostro Stato”.
Sono parole forti e dure, come a volte duro e sconvolgente è questo libro, ma di profonda verità; quella verità che spesso si ha vergogna di raccontare o che non si vuole accettare, dopo un femminicidio, soprattutto in provincia, dove è più difficile ammettere che una persona “normale”, o che così almeno appariva, in realtà è un assassino, ma che bisogna raccontare, affinchè qualcosa possa cambiare.