Per l’induismo il male non va rintracciato in un essere personale ostile all’uomo, cioè nel Satana di tradizione ebraica e cristiana, bensì nell’uomo stesso, il quale avendo desiderio e ignoranza predispone sé stesso e il suo ambiente a soffrire. Per la dottrina induista del karma, una esistenza dominata da desiderio e ignoranza, non solo determina sofferenza e male qui ed ora, ma anche una reincarnazione successiva dominata da queste condizioni. Invece una esistenza priva di desiderio e ignoranza determina una reincarnazione migliore. Per l’induismo lo scopo ultimo delle varie vite è la identificazione finale con il Brahman, l’Assoluto, una volta che sono cessate le reincarnazioni. L’uomo possiede un Atman, immortale e eterno, cioè un Sé, un’Anima, il quale dovrà reintegrarsi nella perfetta identificazione con il Brahman. Per eliminare desiderio e ignoranza, che causano le reincarnazioni, bisogna affidarsi ai riti religiosi, alla penitenza e alla ascesi ed è un processo che deve continuare per molte vite fino alla completa liberazione, mokṣa.
Con Atman si indica il Principio della vita dell’individuo, l’anima individuale (Jivatman), lo spirito, il sé-stesso, ci riporta a noi-stessi e per questo ha una sua potenza. È lo spettatore del corpo e del pensiero, poiché si situa oltre. È coscienza assoluta, ed in questo senso, è identico a Brahman (l’Assoluto, il divino, che è oltre alle nozioni).
Karma in sanscrito significa “azione”. L’atto che può essere fisico, pensato, positivo o negativo, determina non soltanto il futuro in questa vita, ma anche le future incarnazioni dell’individuo, il corpo non si aggrega per caso ma è determinato dalle forze del karma. Il rapporto con il mondo crea karma e le forze che vengono a determinarsi si ripresenteranno di vita in vita.
Brahmavaivarta Purana (Krishnajanma Kanda, XLVII): “La devozione e le nobili azioni elevano gli abitanti del mondo al regno glorioso delle dimore celesti … Ma le azioni malvage li precipitano negli inferi, in abissi di pene e dolori, che comportano la reincarnazione in uccelli e in parassiti, o nel ventre di maiali e animali selvatici, o fra gli alberi, o fra gli insetti. È con le azioni che ci si merita la felicità o il tormento, e si diviene padroni oppure servi. È con le azioni che si assurge al rango di un re o di un sacerdote, o di qualche dio. Ed è ancora con le azioni che si contraggono le malattie, si acquistano bellezza o deformità, o si rinasce come esseri mostruosi”.
Secondo la dottrina rosacrociana del grande filosofo mistico Max Heindel, le più antiche fonti religiose induiste non parlerebbero di una possibile reincarnazione in forme di vita inferiori, come piante o animali. Secondo l’interpretazione di Heindel, il genuino pensiero induista sarebbe quello di postulare reincarnazioni sempre migliori, da pianta a animale, da animale a uomo, da uomo a divinità (formando una spirale che procede sempre verso l’alto). Lo scopo delle esperienza durante una vita è quello di imparare delle lezioni: una volta apprese, l’individuo è pronto per passare il livello evolutivo. Infatti, Heindel (Cosmogonia dei Rosacroce) osservava che nella Kathopanishad (capitolo V, versetto. 9) si afferma che “qualcuno, a seconda delle sue azioni, ritorna nell’alvo e qualche altro nello sthanu”. Il termine sanscrito “sthanu” significa “immoto”: ma ha anche il significato di “pilastro”, ed è stato interpretato come se significasse che alcuni, a causa dei loro peccati, fanno ritorno al regno immobile delle piante, cioè ritornano indietro nel piano evolutivo. Ma sarebbe un errore questa traduzione.
Gli Spiriti s’incarnano solo per acquistare esperienza, per conquistare il mondo, per vincere le
Pancha Kosha sono i cinque involucri. Nelle Upanishad e nel Vedanta si distinguono cinque involucri chiamati Kosha in cui è avvolto l’Atman. L’identificazione del proprio Io con uno di questi involucri, non permette di percepire Atman, la vera natura dell’universo, praticando la meditazione si possono eliminare le identificazioni come, per esempio: “io sono il mio corpo, i miei pensieri, e così via”. Kosha è una parola sanscrita che significa: avvolgere, rivestimento, involucro, strato, guaina. L’ordine dei cinque Kosha è il seguente:
- Annamaya Kosha: è il più denso dei cinque Kosha, è lo strato del cibo: il corpo fisico;
- Pranamaya Kosha: il secondo Kosha, l’involucro delle forze vitali, di ciò che ci muove, nel quale circola l’energia, Prana che ci rende vitali, che ci modella costantamente;
- Manomaya Kosha: il terzo riguarda il mentale, nei rapporti viviamo le emozioni, simpatie, le antipatie e questo è l’involucro della mente;
- Vijnanamaya Kosha: abbiamo un livello intellettivo che domanda e capisce, questo è lo strato del capire, è quello d’intelligenza, della facoltà di discriminazione;
- Anandamaya Kosha: è “ciò” su cui si basa tutto, il quinto involucro è il più sottile. Si tratta dello strato più vicino al “divino”.
La dottrina della reincarnazione compare nell’induismo solamente dal VIII secolo a.C. in avanti, con le prime Upanishad. Prima di esse la rivelazione vedica tramandava che i morti tornano a incontrare i propri antenati nel mondo dell’oltretomba, governato dal potentissimo dio Yama. Infatti nel Rig-Veda (X, 14, 2), il più antico testo della rivelazione vedica, datato attorno al XV secolo a.C., è scritto in lingua vedica in uno splendido metro nicṛttriṣṭup:
yamo no gātum prathamo viveda naiṣā gavyūtir apabhartavā u | yatrā naḥ pūrve pitaraḥ pareyur enā jajñānāḥ pathyā anu svāḥ ||
“Yama, per primo, ha trovato per noi il cammino per l’altro mondo; questo è un pascolo che non può esserci portato via. Là, dove se ne sono andati i nostri padri, se ne sono andati via via quelli nati dopo, seguendo ciascuno la sua strada”.
Nel Rig-Veda (X, 14, 8) in metro svarāḍārcītriṣṭup è scritto riguardo il defunto:
saṃ gacchasva pitṛbhiḥ saṃ yameneṣṭāpūrtena parame vyoman | hitvāyāvadyam punar astam ehi saṃ gacchasva tanvā suvarcāḥ ||
“Unisciti ai padri, unisciti a Yama nel più alto dei cieli grazie ai sacrifici e alle tue offerte. Avendo abbandonato ogni difetto, torna di nuovo a casa: pieno di nuovo vigore, riunisciti al tuo corpo”.
Il ritorno a casa è il ritorno al cielo dal quale l’anima proviene. Il defunto, entrato nel mondo dei morti, che sta in cielo, acquisisce un corpo depurato dai difetti, quindi carico di nuova forza. Il nominativo singolare maschile suvarcāḥ (< suvarcas) evoca l’idea sia della forza sia dello splendore.
Nel VI secolo a.C. il Buddha storico predicò nel nord dell’India la sua dottrina, che gli occidentali chiamano buddhismo. Il buddhismo nega il valore del sacrificio induista per ottenere la reintegrazione e, a detta di una vulgata universitaria occidentale, negherebbe anche l’Atman. Infatti in Occidente nelle università si insegna ancora che il Buddha negherebbe il Sé, infatti l’uomo sarebbe formato da 5 aggregati (skandha) che si disintegrerebbero con la morte.
Ma cosa vuol dire esattamente un discorso del genere? Inoltre, anche il buddhismo in qualche modo accetta la legge del karma, quindi ci si chiede: Se l’uomo non possiede l’anima, cosa sopravvive dopo la morte e si reincarna in un nuovo corpo?
Per rispondere a queste domande, sono stati scritti mari di carta. Secondo una interpretazione, il Buddha non nega l’Atman ma nega solo la sua eternità e immutabilità. Per il buddhismo tutto è transeunte, impermanente, destinato a perire. L’uomo in questa condizione terrena ha un’Anima, nel senso di uno psichismo individuale, formato di sensazioni, ricordi, pensieri, che rendono una persona unica, ma questa anima scompare dopo la morte. L’anima umana, quindi, esisterebbe solamente nell’arco di una vita, per poi scomparire definitivamente con la morte.
A questo punto, ci si chiede: Cosa sopravvive alla morte? Non certo l’anima, cioè l’individualità di una persona. Con la morte non c’è un annullamento, cioè una discesa nel Nulla, bensì nel Vuoto, che è inteso come la condizione potenziale di tutti gli esseri. È un concetto impossibile da capire da parte di un occidentale. Mentre il nulla è il niente, il vuoto invece è ciò che rende possibile l’esistenza di tutti gli esseri senza che questo vuoto coincida con gli esseri stessi. In questo vuoto impersonale, quindi, non vi entra l’anima individuale di una persona, che scompare con la morte, bensì la sua natura potenziale, quella che è definita “natura di Buddha”, che tutti gli esseri hanno, anche se non lo sanno. Tutti gli esseri senzienti devono abbandonare l’anima illusoria che li separa dalla natura di Buddha, altrimenti sono costretti a reincarnarsi in esistenze illusorie, dominate cioè dall’anima individuale anziché dalla natura di Buddha. È la presenza dell’anima individuale con tutte le passioni (desiderio e ignoranza) che determina una reincarnazione. Quando, dopo innumerevoli vite, l’individuo cessa di essere identificato con la propria anima individuale di una esistenza, raggiunge il Nirvana, cioè la estinzione del desiderio (e non l’annullamento!). Mediante la estinzione del desiderio, cioè dell’anima individuale, cessa la legge del karma che spinge a reincarnarsi.
Il Buddha che raggiunge il nirvana può continuare a vivere (perché il nirvana è la “estinzione”, nirodha, del desiderio e non di tutto, cioè non è l’annullamento) ma in uno stato di illuminazione e beatitudine, come il Buddha storico, il fondatore del buddhismo, il quale, raggiunto il nirvana, restò ancora qui a insegnare ai discepoli. Ma chi raggiunge il nirvana cesserà di reincarnarsi e, dopo la morte, non avrà un’altra esistenza, bensì entrerà nel vuoto, raggiungerà la natura di Buddha, cioè una beatitudine eterna, se così si può chiamare uno stato non definibile secondo categorie occidentali. E da lì non potrà può ritornare.
A questo punto, ci si chiede: Se l’anima scompare con la morte e un essere senziente non ha ancora raggiunto la identificazione con la natura di Buddha, come fa a reincarnarsi in un’altra esistenza?
Questo è un punto assai affascinante del buddhismo, che in Occidente è filtrato poco. Il Buddha cercò ciò che sopravvive alla morte non in un oggetto o in uno stato dell’essere o della coscienza, bensì in un processo. Sopravvive la intenzione etica che coincide con il karma. Cosa è la intenzione etica? Sono le passioni di una vita, l’insieme del desiderio e dell’ignoranza che caratterizza una esistenza terrena. In questo senso la reincarnazione avviene senza anima, secondo un processo detto “origine interdipendente” (pratityasamutpada). Pertanto, secondo tale dottrina, non sono le anime a reincarnarsi, in quanto l’anima individuale muore con il corpo, bensì “condizioni particolari” (nidana), che sono il prodotto di cause interdipendenti.
Quando qualcuno muore, lascerebbe alle spalle il corpo e tutto il resto, anima individuale compresa, tranne il karma. Questo karma si estrinseca in una sorta di sostrato, una specie di coscienza senza essere vera coscienza, detta alaya, che si trova al limite della inesistenza, ma che sostiene la mente e il corpo di ogni essere senziente. È questa alaya, plasmata dal karma delle esistenze precedenti e dalle intenzioni etiche della esistenza in oggetto, a costituire l’anello intermedio tra un essere senziente e la sua esistenza successiva. Questa alaya scatenerebbe un altro insieme variegato di concause che porterebbe alla creazione di un nuovo individuo, dotato di corpo e anima, nella scelta di un nuovo embrione nel corpo di una donna in un ambiente idoneo dal punto di vista karmico. È assai interessante che questa alaya non va nel feto bensì nella madre. Quindi la alaya non è un’anima che trasmigra bensì un continuum di concause che attraversa le rinascite.