L’ esistenzialismo irruppe di prepotenza nella scena culturale italiana nel 1939 con l’apparizione del capolavoro filosofico di Nicola Abbagnano, La struttura dell’esistenza. 
Il libro, fra i più notevoli espressi dal pensiero italiano di quegli anni, segnò un importante sdoganamento nella scena italiana di tematizzazioni che da noi erano ancora lande incognite.

Peraltro, Abbagnano non ritrovò più il vigoroso slancio di pensiero di quel suo libro e i suoi successivi lavori filosofici non svilupparono adeguatamente i suggerimenti in esso contenuti, costituendo piuttosto una serie di variazioni sul tema.

L’ approdo poi alla categoria spesso generica di Neoilluminismo e il crescente interesse di Abbagnano per le scienze sociali finirono con il mettere progressivamente in ombra la radice originaria e più pura del suo pensiero.

Con l’avanzare della morsa dei totalitarismi e il progressivo offuscamento di ogni libertà la riflessione esistenzialista si ripiegava sempre di più nell’ auscultazione quasi ossessiva e autoriferita della Sorge, dell’Angoscia, e si costituiva nell’ Heidegger di Essere e Tempo come “essere per la morte”, in Jaspers come scacco e naufragio ineludibile. 

Il tentativo di Abbagnano di dar vita a un “esistenzialismo positivo” era fondato sul concetto di “struttura”, concetto che finiva per essere uno spiraglio di possibilità trascendentale rispetto all’ orizzonte “disperato” dei due grandi esistenzialisti tedeschi.

Senza raggiungere l’universalità e la ricchezza di articolazioni dell’Essere e Tempo heideggeriano e della Filosofia di Jaspers, il libro di Abbagnano costituiva comunque un importante snodo concettuale per il ripensamento del concetto di individuo, così ambivalente sia in Croce che in Gentile, allora dominatori della scena filosofica italiana. 

Emergeva allora, in filigrana piuttosto che coi toni acidi e livorosi che l’avrebbero caratterizzata in seguito nello stesso Abbagnano, la polemica proprio con l’egemonia del pensiero di Croce (e di Gentile) sulla cultura italiana.

Peraltro, l’instante polemica anticrociana di Abbagnano si fondò quasi sempre su tentativi di ribaltamento speculare delle tesi di Croce, di esprit de contradiction quasi dispettoso, per approdare poi, come nei senili Ricordi di un filosofo, alla avvilente dimensione del puro pettegolezzo e di un astio molto poco filosofico.

Pettegolezzo e astio che nascondevano la povertà di argomenti addotti contro Croce, l’assenza di una vera e propria confutazione speculativa.

L’ unico nucleo consistente dell’anticrocianesimo filosofico di Abbagnano consistette nella ripulsa della definizione di “storicismo assoluto” e nell’ asserzione che il grande assente della filosofia di Croce fosse proprio l’Uomo, l’individuo colto nella singolarità e unicità del suo esistere.

Ma in Croce, per quanto il suo pensiero sia profondamente permeato dal senso dell’individualità, l’individuo stesso ha senso solo se relazionato all’ Universale di cui egli vive. 

L’ Universale e la dimensione soggettiva sono inscindibili mentre nell’ esistenzialismo, di qualsiasi connotazione, si assiste all’ esasperazione del soggetto.

E, pensando a sé stessi come monadi, non ci si pensa realmente.

Piuttosto bisognerebbe rilevare la dimensione profondamente contraddittoria e in ultimo aporetica che l’individuo assume in Croce: in un pensiero così profondamente intriso del senso dell’individualità l’individuo stesso rischia a volte di scomparire, sommerso proprio nel flusso dell’ Universale. 

Contraddizione feconda e problematica insieme, irrisolta in Croce, e già a suo tempo acutamente notata e sviluppata da Carlo Antoni. 

Riguardo allo storicismo assoluto, autodefinizione crociana in perenne pericolo di tramutarsi in teologia storicizzante e in un riconvertirsi in quella vecchia “Filosofia della Storia” che doveva essere l’antitesi dello storicismo, va detto che i più avvertiti interpreti di Croce da tempo lo hanno sospinto al di là dello storicismo stesso e dell’angustia della sua dimensione.

In una sua lettera a Croce dopo la lettura dell’Estetica del 1902, Antonio Labriola scriveva al proprio allievo che egli era in realtà il nemico del Divenire. 

Nell’ Arte intesa come Assoluto non c’era più spazio per il divenire, nel suo essere una categoria eterna e fuori dal tempo lo stesso movimento storico e la datità venivano riassorbiti in tale ipostasi categoriale.

Discorso simile andrebbe fatto anche per le altre categorie crociane, dove la colluttazione insistente e irrisolta verte proprio sull’ impossibilità di far quadrare armonicamente categorie eternamente date e movimento storico, incrinando proprio quella fusione agognata, inseguita ma non raggiunta, fra il sapere filosofico e il sapere storiografico.

Tutte tematizzazioni che, nella sua polemica anticrociana, Abbagnano neppure sfiorò, come non approfondì adeguatamente (proprio lui, autore della Storia della filosofia più divulgata in Italia, ma anche la più generica e legnosamente scolastica) il nesso fra filosofia e storia della filosofia.

La radice dell’anticrocianesimo di Abbagnano, poi, fu forse anche di altra natura, tutt’ altro che commendevole e legata a esigenze di riverginazione politica.

Abbagnano millantò sempre di essere stato un antifascista della primissima ora, avverso a Mussolini sin dalla sua presa al potere.

E i Ricordi di un filosofo, così impregnati di senile vanità (a un certo punto cade nell’ improbabile vanteria di avere ricevuto in Sud America più applausi di Sartre!), contrabbandano tale versione autoapologetica. 

Dalle ricerche di Massimo Salvadori e altri autorevoli studiosi abbiamo appreso che tale versione di Abbagnano non corrisponde a verità e che egli fu invece per tutta la durata del regime fervente fascista, con espressioni che vanno ben al di là di una tiepida adesione di circostanza o di un imbarazzato nicodemismo. 

Abbagnano si riciclò come antifascista a fascismo caduto e i suoi elogi del regime, accortamente tacitati e rimossi, parlano chiaro sulle sue effettive posizioni politiche nel corso del ventennio.

Le dittature costringono odiosamente gli uomini, quando vogliono a esse opporsi, alla misura dell’eroismo.

E, per dirla con il notissimo detto di Brecht, beati i popoli che non hanno bisogno di eroi Scrive Salvadori che Abbagnano “fu ferventemente fascista” e che per tutti gli anni Trenta “a più riprese e in diverse sedi manifestò il proprio convinto consenso alla dittatura, con forme e toni che non possono in alcun modo configurare una sorta di pedaggio opportunistico pagato alle circostanze”. 

In un discorso tenuto nel 1932 nel liceo in cui insegnava il pensatore salernitano inneggiò apertamente a Mussolini e al fascismo, contro “tutti i vecchi istituti dello Stato liberale, completamente incapaci a reagire contro quella disgregazione della coscienza politica italiana, che era l’ultimo e tristo retaggio delle secolari divisioni che avevano afflitto l’Italia, tutti i vecchi istituti, diciamo, sono stati rifatti e rinnovati secondo il nuovo spirito della Nazione”.

L’ Abbagnano che tacciò Croce di essere antidemocratico per le Pagine sulla guerra (libro invece di altissima testimonianza morale sul primo conflitto mondiale) tirava allora bordate contro la “degenerazione parlamentaristica”, contro la quale, a suo dire, si era opposto finalmente “saldo e granitico” un governo “vigile e duttile a tutte le esigenze e gli interessi nazionali, vero organo centrale propulsore di vita e di progresso. Il Parlamento, sottratto alla sterile gara delle ambizioni, è stato ricondotto alla sua dignità e alla sua vera funzione di consigliere e collaboratore del potere esecutivo”.

Nel 1939 Abbagnano annotava che “La Nazione italiana ha creato, con l’Impero, una forma di organizzazione politica che ha i tratti essenziali di un’esperienza politica ideale, di un’esperienza cioè nella quale la vita spirituale e la forza si conciliano nella più armonica unità”. La guerra, con riferimento alla Campagna d’ Etiopia, poneva l’essere umano dinanzi “all’alternativa tra l’essere se stesso nella propria storia e il disperdersi in una vita senza storia”. Al cospetto «di questa alternativa, i popoli stringono le fila, si purificano e si definiscono”.

Acutamente Salvadori scorge il diretto legame fra la purificazione dei popoli prospettata da Abbagnano e l’enfasi retorica (per usare un eufemismo!) con cui si contrabbandava allora la purezza della razza. 

Viene da notare anche che, come la maggior parte degli intellettuali italiani, al questionario sull’ appartenenza o meno alla razza ariana Abbagnano rispose apponendo espressi attestati del proprio “arianesimo”.

Nel generalizzato silenzio degli intellettuali italiani sulla promulgazione delle leggi razziali una delle poche coraggiose voci controcorrente fu proprio quella di Croce che, oltre a pubblicare eloquentemente una lettera del Galateo, l’umanista quattrocentesco, in difesa degli Ebrei, rimandò al mittente il questionario con la più sottile e sferzante delle risposte: 

“Gentilissimo Collega, ricevo oggi qui il questionario che avrei dovuto rimandare prima del 20. In ogni caso, io non l’avrei riempito, preferendo di farmi escludere come supposto ebreo. L’unico effetto della richiesta dichiarazione sarebbe di farmi arrossire, costringendo me che ho per cognome CROCE, all’atto odioso e ridicolo insieme, di protestare che non sono ebreo proprio quando questa gente è perseguitata…”.

Reazione, come si vede, ben diversa da quella di Abbagnano, poi da lui accortamente dissimulata per decenni in un maldestro tentativo di imenoplastica.