È di questi giorni la notizia della bocciatura all’esame di abilitazione come professore ordinario di Angela Vettese. I più, che non seguono le vicende dell’arte contemporanea, non sapranno chi sia, ma molti lettori del “Domenicale del Sole 24 Ore”, per citare una fonte nota ai più, conoscono benissimo la sua prosa critica chiarissima e al contempo scientifica; i lettori di “Domus” (rivista storica, internazionale, per l’Architettura fondata nel 1928 da Gio Ponti) ricordano i suoi interventi.

Eppure “Angela Vettese non è matura”, “non possiede elevata maturità artistica” e “appare troppo sbilanciata sul piano delle curatele di mostre e personali di artisti e sulla divulgazione scientifica”. Sono le espressioni che i commissari d’esame utilizzano nel giudicarla non idonea all’abilitazione. Questo episodio, certamente non unico, è significativo per fotografare lo stato dell’istruzione in Italia e anche la ragione della marginalizzazione delle discipline artistiche e della storia dell’arte in particolare, che è stata avviata con la riforma Gelmini ed è proseguita anche con i governi successivi.

L’Italia ha sicuramente un patrimonio artistico straordinario ed è abbastanza ozioso stare a cavillare su quale percentuale del patrimonio mondiale “risieda” in Italia. E molta altra arte italiana, antica e contemporanea, arricchisce collezioni pubbliche e private in tutto il mondo. Quello che sicuramente il nostro paese può vantare è la ricchezza di un paesaggio mutevole abbastanza conservato. Nella nozione di paesaggio possiamo e dobbiamo includere le strutture urbane che lo caratterizzano e le molteplici istituzioni museali, spesso, in Italia, da innovare sul piano espositivo e didattico. Ne consegue che lo studio dell’arte dovrebbe essere un patrimonio culturale condiviso, fecondo per la tutela e promozione del Paese, non solo in funzione turistica. Di pochissimi Paesi al mondo il segno distintivo più riconosciuto rimanda alla dimensione e alla realtà artistica come forma di vita e anche di esperienza politica. Però l’arte rimane una cenerentola, non solo rispetto alle scelte dei bilanci pubblici, ma anche rispetto agli impegni del mecenatismo privato.

Se pensiamo che la Biennale di Venezia fu la prima esposizione d’arte internazionale, pur mantenendo un suo prestigio oggi gareggia con un’infinità di manifestazioni analoghe che comunemente però sono supportate da strumenti, anche economici, che valorizzano il lavoro degli artisti viventi, cosa che da noi in pratica non accade. L’Allegoria del Buono e del Cattivo Governo è un grandioso ciclo di affreschi che l’artista Ambrogio Lorenzetti realizzò, tra il 1337 e il 1339, nella Sala dei Nove del Palazzo Pubblico di Siena. Il ciclo è una delle prime opere d’arte di carattere totalmente laico. L’opera fu commissionata dai “Nove” cittadini che in quel momento avevano l’incarico di governare Siena (la regola “elettorale” prevedeva l’alternanza per un periodo di tempo limitato per lasciare poi il posto ad altri “nove”). Il ciclo pittorico rappresenta da un lato l’Allegoria del Cattivo Governo con gli effetti conseguenti: carestia, assassini, saccheggi, violenza, povertà, degrado ambientale ecc.; dall’altro l’Allegoria del Buon Governo con i suoi effetti benefici: città prospere, campagne coltivate, benessere, ricchezza, gioia, e così via. L’intento è chiarissimo: solo se l’amministrazione della cosa pubblica avviene su principi di giustizia, il popolo trae beneficio dal governo pubblico. L’arte è in questo caso, come in molti altri, veicolo di una visione del mondo fungendo al contempo da veicolo educativo. L’arte racconta la realtà politica di una città, o di un Paese, che insegna a riconoscerla nella sua funzione.

Per questo c’è purtroppo una sinistra relazione tra la bocciatura di Angela Vettese, da cui eravamo partiti e il confinamento della storia dell’arte ai margini del curriculo scolastico. E viene abbastanza da ridere nel sentire il Presidente del Consiglio filosofeggiare agli Stati Generali sul valore politico della “bellezza”, visto che abbiamo fatto in modo che la scuola se ne liberasse e l’Italia, alla fine, non sapesse che farsene, se non per consegnarla in dote a circoli accademici chiusi, che considerano estraneo chi riesce a renderla viva e popolare.