I tre aspetti della critica omerica.

Correttamente Fausto Nicolini, nel gran ‘Commento alla Scienza Nuova seconda’ ( Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1950, II vol., al capov. 780 ) nota che la “Questione omerica” in Vico conosce tre aspetti distinti: una tesi estetica, una tesi storica e una tesi filologica. Si riferisce all’intenso passo Della Discoverta del vero Omero, che raccoglie punti della controversia, o querelle des anciens et des modernes,e della prolusione vichiana del 1708 De nostri temporis studiorum ratione;ma procede ben oltre, nei percorsi della ermeneutica filosofica. In sintesi, per il primo aspetto ( la “tesi estetica” ), Vico confuta il presupposto intellettualistico di impronta cartesiana, onde la poesia deve conformarsi alla precettistica dettata dalla raison, e debba perciò mostrare una sapienza riposta nella propria espressione fantastica: “sapienza riposta”, che alcuni  ( e Platone tra questi, al dir del Vico ) avrebbero “opinato” sussistere in Omero.

Il secondo aspetto della complessa questione riguarda la “tesi storica”, giusta la quale ( ma anche per il suo preludio, nelle Notae al Diritto Universale ) i poemi omerici comprenderebbero i “grandi tesori del diritto naturale delle genti greche” ( capovv. 902-904 ), ossia il complesso di costumi, usi, istituzioni, mentalità, cultura religiosa e concezione generale della vita, susseguenti l’età eroica. Mentre il terzo filone di ricerca e interpretazione riguarda la “tesi filologica”, per la quale viene negata la personalità storica di Omero ( tesi questa in parte anticipata nelle ricerche di Perrault, D’Aubignac e Boisrobert ), per riaffermarne la proprietà “storica”, di espressione delle scienze e delle arti del suo tempo e di tutto il popolo greco: tesi che, peraltro, tramite una serie di citazioni, interpolazioni e interpretazioni o “pruove filologiche” non sempre precise, il Vico sostiene – almeno in qualche luogo ( capov. 873 ) – soltanto “per la metà: che quest’Omero sia egli stato un’idea ovvero un carattere eroico d’uomini greci, in quanto essi narravano, cantando, le loro storie”.

Omero non può quindi essere interamente “negato”, dal momento che ne abbiamo le “opere”; alla stessa stregua per cui, dirà poi Joyce nella stazione “Biblioteca” del suo Ulysses, nient’affatto importa la personalità pratica dello Shakespeare, davanti alle sue “opere”, con la loro “eternità ideal-reale”. Omero, egli pure, è un ‘carattere poetico’, come lo sono i suoi poemi e i suoi eroi, frutto di un’opera collettiva di tutto il popolo greco. Sì che il discusso passo vichiano che ne ammette l’esistenza soltanto “per la metà”, può esser letto come duplice tesi o affermazione del nostro Altvater, una per cui Omero è considerato “poeta-simbolo”, in quanto “personalità poetica”; e l’altra – contestuale – di una effettiva se pur parziale realtà storica dello stesso Omero. In ogni caso, se è negato per la propria “storicità”, Omero è riaffermato come “un’idea ovvero un carattere eroico d’uomini greci, in quanto essi narravano, cantando, le loro storie”. Quindi, dialetticamente ossia nella “logica dialettica” propria del “giudizio storico” , Omero è riaffermato con “cotal forza”, “per la metà”. (1)

Certo è che della fonte vichiana trarranno beneficio le dottrine successive dei Wolf, dei Merian, degli Heyne, dei Lachmann, dei Nietzsche e dei Muller, fino ai moderni interpreti e rivisitatori, in una moltiplicazione sterminata di contributi e discussioni, che non è questo il luogo di puntualmente recuperare, se non per darne rinvio nella “letteratura secondaria”, e “plurima”, della “Questione”. Quel che, ora, preme meglio focalizzare è il punto in cui Vico, contrariamente all’assunto del razionalismo cartesiano, dice Omero “padre e principe di tutti i sublimi poeti”, in quanto povero d’intelletto razionale e ricco invece di robusta fantasia e sensibilità umana. Qui si noti che Platone, citato dal Vico, non afferma semplicemente che “Omero fusse egli fornito di sublime sapienza riposta” ( quasi alla stregua di un ‘razionalista’ avant léttre ); bensì che, dipingendo gli dèi quali “ingannatori”, “crapuloni” e “bordellieri”, e gli eroi come donnicciuole deboli e senza spina dorsale, fosse egli stato autore di una poesia indegna di essere coltivata dai reggitori dello Stato ( cfr. Repubblica, Libro secondo e Libro terzo; Eutifrone, par. 5 e 6 ). Ed è la tesi ambivalente tipica dell’estetica platonica, in bilico tra l’assunto pedagogico della Repubblica, (2) onde solo i “filosofi” puri meriterebbero di essere “reggitori dello Stato”; e l’afflato poetico della “dottrina” platonica, per cui l’amore del “bello” è cantato nello Jone e la potenza e il fascino di “Eros” e del “Sommo Bene”, tematizzati in Filebo e nei dialoghi maggiori.

I quattro sensi della “sapienza riposta”.

Esattamente codesto spunto ermeneutico, conquistato in seconda lettura, e sollevato dal moralismo e contenutismo della questione omerica a esaltazione della autonomia della poesia caratterizzata da robusta fantasia e passione, fa nascere, o se si vuole ri-nascere, il gran tema: “ Ma che cosa si deve intendere per ‘sapienza riposta’, con precisa esattezza e distinzione categoriale? E’, codesta, la pura ‘teoria’, o è la ‘sapienza’, come ‘saggezza’ pratica, di cui parla Aristotele nell’ Etica nicomachea ?

 E’ la ‘filosofia ascosa’ ( la cui assenza Platone rimpiange per l’educazione dei cittadini ) o non – piuttosto – il complesso di dottrine, che includono la saggezza pratica come dominio delle passioni ma anche la teoria – in sè e per sé – delle passioni ?

La mia tesi è che l’ambivalenza ermeneutica, inplicita nella smagliante prosa platonica, ed esplicita nella tematizzazione aristotelica, non solo sopravvive nella discussione vichiana circa la questione omerica, ma si tesse e  complica in più aspetti e risvolti teoretici ( ‘sapienza’ – ‘dottrina’ – ‘teoria’ ).

E, in siffatto campo metodico, le citazioni imperfette o errate da parte del Vico ( giusta l’insistenza erudita del Nicolini, poi parzialmente rivisitata da Paolo Rossi o Andrea Battistini ) rispondono a “tessere della interpretazione” dei passi omerici più significativi, ai vari livelli della filologia testuale e della ermeneutica, aperta a ventaglio sui percorsi della dottrina filosofica moderrna.

Tolgo in esame alcuni momenti esponenziali. Certo, come dice il Nicolini, “Nel banchetto di Alcinoo, al quale Vico allude ( Odissea, VIII, 59 sgg. ), Ulisse non procura punto di seppellire i guai nel vino: bensì, per nascondere le lacrime che gli strappa il racconto di Demòdoco, liba ai numi quando il Vate interrompe il canto, salvo a ricominciare a piangere subito dopo che il cantore riprende il racconto. Anzi, le lacrime scorrono in tanta copia quando Demòdoco rievoca la presa di Troia che Alcinoo, intuito il perché di tanto dolore, ordina al bardo di deporre la cetra” ( Nicolini, 1950, II, p.13, in riferimento al capov. 784 della Scienza Nuova seconda ).

Vico aveva scritto, in tono ironico e con frequenza di interrogativi rettorici: “Che dobbiam poi dire di quello che narra: i suoi eroi cotanto dilettarsi del vino, e, ove sono afflittissimi d’animo, porre tutto il lor conforto, e sopra tutti il saggio Ulisse, in ubriacarsi ? Precetti invero di consolazione, degnissimi di filosofo !” Riprendendo nettamente il confronto ( citato dal Muratori nella Vita di Cola di Rienzo ) tra il pianto dirotto dei romani per il loro “infelice stato romano oppresso da’ potenti di quel tempo” ( nel Medioevo, la “ritornata barbarie d’Italia” ); e “al contrario, altri, da sommo dolor afflitti, in presentandosi loro cose liete, come al saggio Ulisse la cena da Alcinoo, si dimenticano affatto de’ guai e tutti si sciolgono in allegria”.

Vico sembra andar per le spicce – all’inizio di codesto Libro terzo -, con toni di alta eloquenza o arte oratoria, per escludere “sapienza riposta”, e tesori di “filosofia nascosta”, nei poemi omerici ( qui, Iliade , XXIV, 511 sgg, e Odissea, VIII, 59 sgg. ). E scrive: “Però, essendo il fine della poesia d’addimesticare la ferocia del volgo, del quale sono maestri i poeti, non era d’uom saggio di tai sensi e costumi cotanto fieri destar nel volgo la maraviglia per dilettarsene, e col diletto confermargli vieppiù. Non era d’uom saggio al volgo villano destar piacere delle villanie degli dèi nonché degli eroi, come, nella contesa, si legge che Marte ingiuria ‘mosca canina’ a Minerva, Minerva dà un pugno a Diana, Achille ed Agamennone, uno il massimo de’ greci eroi, l’altro il principe della greca lega, entrambi re, s’ingiuriano l’un l’altro ‘cani’, ch’appena ora direbbesi da’ servidori nelle commedie” ( da “Iliade”, XXI, vv. 394 sgg. e 489 sgg; con I, v. 225 sgg. ). “Ma, per Dio ! Qual nome più propio di ‘stoltezza’ merita la sapienza del suo capitano Agamennone, il quale dev’essere costretto da Achille a far suo dovere di restituire Criseide a Crise, di lei padre, sacerdote d’Apollo, il qual dio per tal rapina faceva scempio dell’esercito greco con una crudelissima pestilenza ? E, stimando d’esservi in ciò andato del punto suo, credette rimettersi in onore con usar una giustizia ch’andasse di séguito a sì fatta sapienza, e toglier a torto Briseide ad Achille, il qual portava seco i fati di Troia, acciocché, disgustato dipartendosi con le sue genti e le sue navi, Ettorre facesse il resto de’ greci ch’erano dalla peste campati ?” E così via.

Ancora il Nicolini si appone a puntualmente correggere l’utilizzo vichiano del supremo colloquio tra Priamo e Achille, più oltre, nel XXIV dell’ Iliade ( vv. 556 sgg. ). “Nel tornare sul colloquio tra Priamo e Achille, il Vico contamina due momenti ben distinti: quello in cui l’eroe greco, infastidito ( non ‘ montato in una collera bestiale’ ) perché il vecchio ricusa di sedere, minaccia non di ‘volergli mozzare la testa‘, ma di farlo fuori la tenda, senza restituirgli la salma del figliuolo; e l’altro momento in cui lo stesso Achille, molto più riflessivo di quanto non lo dipinga il Nostro, appunto per impedire che Priamo, nel vedere morto il figlio, prorompa in esclamazioni iraconde, e perciò capaci di suscitare in lui, Achille, qualche impeto di collera omicida, ordina alle ancelle di lavare il cadavere di Ettore in disparte dal padre ( Iliade, XXIV, 556 sgg )”. (3)

In verità, Omero dice “irritato”, non meramente “infastidito” ( né, “montato in una collera bestiale”, come acclama lo stato psichico dell’eroe greco Achille, il Nostro filosofo ): “nulla riflettendo alla fortuna comune, della quale non vi ha cosa che più vaglia a muover compatimento; – montato in una collera bestiale, gl’intuona sopra ‘volergli mozzar la testa‘ !”. La interpretazione “autentica” sembrerebbe risiedere – in questo caso – nell’aristotelico “giusto mezzo”. Ma il punto sonoramente esclamativo, con il tono altamente rettorico del contesto, è di Vico; il quale, appunto, in un crescendo ben strutturato di domande che implicano risposte, esclamazioni, espressioni di meraviglia e persino chiamate in causa dirette delle divinità, vuol ribadire che gli esempi addotti dall’ Iliade e dall’ Odissea  ( l’ira di Achille nel colloquio finale con Priamo; la cena di Alcinoo con l’ospite Ulisse ) inequivocabilmente attestano la assoluta mancanza di “sapienza riposta” in Omero  ( al capov. 784, paragrafo I. Della sapienza riposta c’hanno oppinato in Omero” ).

Ma l’abile e fluente climax della perorazione deve sorpassare, e in effetti così sorvola, il dilemma di metodo: “sapienza riposta” in che “guisa”, vichianamente coonestando il termine delle “modalità”, o “guise”, da me altra volta restaurato ? (4) E’ la “saggezza” o “dottrina”; è la “prudenza” di antichi e moderni, o si tratta, invece, di “teoria”, la “teoresi”, detta della filosofia pura ?

E la “sapienza”, che sarebbe da invocarsi in Priamo e Achille ( ma che vi latita, al dire del Vico ), è “sapienza” di qual natura, o indole ( filosofica, o pratica ) ? Vico ha mescolato – invero – le “guise”, spacciando per “filosofia nascosta”, l’ideale di “saggezza” pratica, desiderato in Priamo o Achille, Odisseo e Alcinoo. Certo, si stenta a ritrovare in codesti personaggi, “sapienza riposta”; ma essa in parte riposa su intensi sentimenti di “pena” ( per il padre Priamo ) e di “collera” ( incipiente o greve, per l’eroe Achille ). Sono le ‘pulsioni’, in parte vinte, a caratterizzare l’animus dei personaggi omerici ( almeno nei casi esemplificati ). In qualche modo, si deve andare oltre la lettura “classica” del Nicolini e del Croce ( il cui saggio su Vico e la critica omerica è accolto nel Saggio sullo Hegel ); guardando in direzione – se si vuole – della psicologia analitica, ‘ante litteram’, predicata dal Vico. “Sapienza” è, allora, il giuoco delle pulsioni ( in Priamo, in Achille, in Odisseo ), che la ragione è chiamata a dominare. Per questo motivo, Achille “non è pazzo, assassino, delinquente”, fa dire Omero alla messaggera degli dèi Iri, sul punto di convincere Priamo  a recarsi da solo, nel buio della notte, al campo di Achille  ( XXIV, 184-187 ). Per ciò stesso, Vico avvalora, invece, i momenti in cui le pulsioni sfuggono al controllo della ragione, per dimostrare la propria tesi, non esservi – cioè – in Omero “sapienza riposta”, in senso “cartesiano”, “razionale”, “certo”.

In effetti, nella Scienza Nuova seconda, al capov. 706, il termine “sapere” è usato nel senso di “gustare” e “dare sapore”. E, per la osservazione che “la sapienza fa usi, delle cose, i quali hanno in natura, non già quelli che ne finge l’oppenione”, rinvia al precedente di Tommaso Campanella, il quale, nella edizione italiana de Il senso delle cose, aveva scritto: “La sapienza è la cognoscenza certa di ogni cosa internamente, senza dubitanza, ed è presa questa voce dalli sapori che il gusto sape”. (5) Peraltro, che il significato fisico di “sapientia”, da  “ *sapio ”, precedesse il valore intellettuale, era stato registrato già in Voss, Etymologiae, II, 619  ( come nota lo stesso ed instancabile erudito Nicolini, sulla base del lessico di Forcellini, ad voces ). Dunque, in codesta accezione, epistemologicamente, sapientia, da “ *sapio ”, costituisce nozione da Mondo 1, direbbe Karl Popper, come di conoscenza “certa”, perché “fisica”. (6)

Ma questa prima accezione, “sensibile”, confligge con la accezione insita nel concetto di “sapienza riposta”, “intellettuale”, come “ragione esercitata sulle pulsioni emotive”, o come “dottrina razionale”, calata entro la poesia di Omero: ed è proprio siffatta accezione, “intellettuale”, a esser negata in Omero dal Vico. Dunque, la questione “ermeneutica” si riapre; e invita a riguardare la alternativa “dialettica” tra “sapienza riposta” e “dottrina razionale”, o “teoresi” pura.

Come in tanti genii, la “polisemìa” e l’ampiezza dei significati campeggiano in Vico, tanto più che l’erudizione sterminata ne caratterizza la “Ingens Sylva” ( al dire di Enzo Paci ). Siamo noi, oggi, a dare nuovo rilievo alle varie accezioni della tanto discussa “sapienza riposta”, che è in se stessa polivalente e pluriprospettica; e si apre in direzioni ermeneutiche rinnovate. La “sapienza” può essere, allora, tanto la conoscenza “certa”, perché “sensibile”, quanto perché “razionale” ( lo abbiamo or ora registrato ). Ma può essere anche la traduzione in “Teoria”, conquistata mercé i nuovi acquisti della “Interpretazione”: ad esempio, la teoria fenomenologica della mobilità delle relazioni, o “relazionismo”; la “dialettica delle passioni”; la filosofia del Tempo e la dialettica degli “opposti”, contro e sopra la esclusiva “territorialità” degli strati psichici e delle emozioni.

Certo, le contraddizioni ci sono nelle citazioni e nelle diciture dotte del Vico ( e qui il Nicolini ha ragione di sottolinearlo ). Ma esse vanno inquadrate in un contesto categoriale più ampio. E vanno spesso  ‘ritruovate’ nella stessa fonte omerica, che per Vico non è opera di un solo Autore ma di tutto un popolo e di una tradizione aedica. Ad esempio, anche in Iliade XXIV ( sopra citato ) si ravvisano aporie, incongruenze, contraddizioni. Ai vv. 410-415, si dice che il corpo di Ettore è incorrotto, pur essendo “deposto da ben dodici giorni”. Ma, al v. 500, Priamo dice ad Achille, scongiurandolo a restituirgli il cadavere: “Tu ieri l’hai ucciso, mio figlio”.

 E’ una vistosa contraddizione; fonte di lagnanze erudite presso tutti i “separatisti”, contro gli “unitaristi”, nella vexata “questione omerica” ( Carlo Del Grande, Giorgio Pasquali, Fausto Codino, Eva Cantarella, Moses Finsley e via ). Ma si spiega come l’ esito di una probabile condensazione affettiva, psicologica e poetica, intravista da Omero nell’animo e nelle parole di Priamo, il quale sente ancora attuale la morte di Ettore, per l’immensa e continua pena che gli procura. Ancora: dopo il sogno di Achille che vede Patroclo, lui implorante di non dimenticarlo né abbandonarlo ( in Iliade, XXIII, vv. 65 sgg. ); in XXIII, 76 è rievocata la Leggenda micenea, giusta la quale i defunti sono sepolti nelle tombe, con gli oggetti di culto, e perciò fatti segno di devozione e sacrifici propiziatori. Ma d’altro canto, nella Iliade, vige la tradizione della crematura, per la qual cosa – finché Patroclo non sarà cremato – lo stesso eroe e fidato amico di Achille sente, pensa, ricorda, ama e parla, come se fosse ancora vivo e fisicamente presente ( al XXIII, vv. 99-107 ).

E’ una contraddizione, fra le tante, tolte in esempio; per dire che essa raccoglie in seno una forma di “dialettica delle passioni” vita-morte, sogno-realtà, ‘nòstos’ e ‘addio prolungato’, come accade alla grande poesia “universale”, fiorita da Omero per echi stupendi ( v. Finnegans Wake ): in questo caso, ‘Dialettica delle passioni’, agìta e sofferta ( epperò cantata ) tra Iliade XXIII, 65-107  e Iliade XXIV, 104-595. E tale contraddizione, ricca di pathos altissimo, riposa su “caratteri poetici”, “universali fantastici” ( dice Vico ): come accade per Ettore nella Iliade, e con Ulisse nella Odissea, rispettivamente. Dove la contraddizione filologica rimane; ma è risolta nel più vasto orizzonte ermeneutico, e cioè nella dottrina della “dialettica delle passioni”, vissuta nella relazione tra personaggi. Sono i “momenti culminanti” della poesia omerica, vissuti nel “tempo” e condensati nella dimensione archetipale,  “archetipica”, junghianamente chiarendo, degli ‘universali fantastici’. (7)

Al culmine della Iliade stessa, grandeggiano per l’eternità, come “universali fantastici”, le scene rappresentate nella mobilità delle relazioni. Dove, si mescolano ed alternano, con straordinaria potenza e fluidità, il pianto per Ettore da parte di Priamo e il pianto di Achille per la morte di Patroclo ( XXIV, vv. 507-517 ). Poi Priamo siede, ed ammira la grandezza di Achille; mentre lo stesso Achille gli è di fronte, ammirando grandezza e  coraggio del vecchio padre. E i due eroi – dice Omero – restano così in sospeso, con reciproca intensità di sguardo e di relazione ( XXIV, 628-632 ). Qui, l’ “archetipo” è – appunto – filosofico e dottrinale, nel senso di ‘trasferire in scena’ il linguaggio ‘relazionale’, in senso fenomenologico e inter-personale. Il che forma il livello supremo di “sapienza riposta” nel divino Omero, anche se “non detta”, perché “calata nel reale” della poesia in atto ( per adottare il linguaggio desanctisiano ). Così, Priamo alla consorte esprime la “pulsione ad andare da Achille, oltre il senno”. “Quanto a me, il cuore e il desiderio mi spingono / terribilmente, ch’io vada alle navi, al campo largo degli Achei”. / “Disse così, ma la donna gemette e ricambiò parola. ‘Ahimé ! Dove è andato il tuo senno, per cui prima avevi / gloria fra gli stranieri e fra le genti che reggi ?’” ( XXIV, 197-202 ). E poi: “ Così nell’alto palazzo attaccavano i due, / l’araldo e Priamo, ricchi di saggi pensieri. / E a loro Ecuba si avvicinò, con l’animo afflitto, / portando del vino dolcissimo in una coppa d’oro / con la destra, perché non partissero senza libare” ( vv. 281-285 ). Quindi: “ Come quando grave colpa ha travolto un uomo, / che, ucciso in patria qualcuno, fugge in altro paese, / in casa d’un ricco, stupore afferra i presenti; / così Achille stupì, vedendo Priamo simile ai numi, / e anche gli altri stupirono e si guardarono in faccia. / Ma Priamo prendendo a pregare gli disse parola: / ‘Pensa al tuo padre, Achille pari agli dèi, / coetaneo mio, come me sulla soglia tetra della vecchiaia, / e lo tormentano i vicini, standogli intorno, /perché  non   c’è   n e s s u n o   che il danno e il male allontani. / Pure sentendo dire che tu ancora sei vivo, / gode in cuore, e spera ogni giorno / di vedere il figliuolo tornare da Troia. / Ma io sono infelice in tutto, che generai forti figli / nell’ampia Troia e non me ne resta nessuno” ( vv. 480-494 ). “Disse così, e gli fece nascere brama di piangere il padre: / Allora gli prese la mano e scostò piano il vecchio; / entrambi pensavano e uno   p i a n g e v a   Ettore massacratore / a lungo, rannicchiandosi ai piedi d’Achille, / ma Achille  piangeva il padre, e ogni tanto / a n c h e   P a t r o c l o; s’alzava per la dimora quel pianto” ( vv. 507-512 ). Ancora, nel brano in parte frainteso dal Nicolini, correttore di Vico: “E il vecchio Priamo pari ai numi rispose:/ ‘Non farmi sedere sul seggio, figlio di Zeus, finché senza cure / Ettore giace straziato nella tua tenda, ma subito / rendimelo, che possa vederlo: e accetta il riscatto / abbondante che porto: e tu possa goderne, e tornare / nella tua patria terra, tu che mi lasci / vivere ancora, veder la luce del sole’./ Ma guardandolo bieco Achille piede rapido disse: /’   ‘ Non  m ‘ i r r i t a r e   ora, o vecchio; son io che voglio / renderti Ettore, perché messaggera mi venne da Zeus / la madre che mi partorì, figlia del vecchio marino. / Anche te, o Priamo – lo so in cuore e non mi sfugge – / guidò qualcuno dei numi alle rapide navi degli Achei” ( vv. 552-564 ). “Poi come la voglia di cibo e bevanda cacciarono, / Priamo Dardanide   g u a r d a v a    A c h i l l e ,   a m m i r a t o, / tanto era grande e bello: sembrava un nume a vederlo. / E  Achille  a  s u a   v o l t a    s t u p i v a  di Priamo Dardanide, / guardando il nobile volto e udendo la voce. / Quando si furon saziati di guardarsi l’un l’altro,/ disse per primo il vecchio Priamo simile ai numi: / ‘Dammi subito un letto, figflio di Zeus.’ “ ( vv. 628-640 ). Sino alla stupenda nostalgia della “dolcezza nella lotta”: “Non era dolce, no, il padre tuo nella carneficina paurosa” ( v. 739 ); e nelle parole di Elena ( vv. 760-775 ): “con la dolcezza tua, con le tue dolci parole”.

 Oggi, volentieri diremmo di essere in presenza ( in senso husserliano ) di “percezione   a n a l o g i c a”  del pianto e del dolore, prima; di una’ammirazione eroica ed estasiata, reciprocamente, poi; della “dolcezza nel giudizio e nella guerra”, con Esiodo e ancor oltre, alla fine.

Sicché abbiamo, allargando lo sguardo e ricomponendo il quadro critico del concetto di “sapienza riposta”, almeno quattro accezioni fondamentali: una in filologia, l’alternativa tra “pulsioni” e “ragione” ( la pena di Priamo; l’ira di Achille, che i due eroi non sempre riescono a dominare razionalmente ); in ermeneutica filosofica, due significati: l’alternativa tra “sapienza” come “conoscenza certa” e la “teoria” come “universale fantastico” o “carattere poetico”, ma anche come dynamis, tra “mobilità delle relazioni” e fluidità del sogno ( Priamo davanti ad Achille; Patroclo in sogno per Achille ) da un lato e la “dialettica delle passioni” vita-morte, rimpianto – presenza dall’altro; e una quarta più complessa in psicologia del profondo: l’alternativa tra la compagine “mobilità delle relazioni” – “stratificazione delle emozioni” ( oggi, nella mia Sintesi del vitale: modello degli ‘opposti’ dinamici in Leopardi e degli ‘strati di sentimento’ in Freud ed Orwell, quello dei layers of feeling in “1984” ) da una parte, e l’emergenza alla “coscienza” dell’ “inconscio” dall’altra ( “Il sogno degli antichi e il sogno dei moderni” ). (8)

Omero, il poeta “cieco”, con la propensione a “pareggiare le sorti”.

Tutto ciò, sul piano filologico esegetico e su quello dottrinale e teoretico, mi sembra racchiuda nel proprio seno l’ammirata e discussa, confutata o negata, ma tutta intensa accezione della “sapienza riposta”, che viene ora “pro-posta”, con Vico e oltre Vico, nel sommo poeta Omero. – E chi è, Omero ? Omero “cieco”, “che fa le parti uguali”. Notabilmente ( anche se poco ‘interpretato finora’, nel senso sopra detto di attivamente ‘ripensato’, all’altezza dell’ermeneutica filosofica ), al paragrafo sesto “Pruove filologiche per la discoverta del vero Omero” del citato Libro terzo, nel comma terzo, Vico spiega la genesi del nome: “Che dall’ origini delle due voci, onde tal nome ‘rapsodi’ è composto, erano ‘consarcinatori di canti’, che dovettero aver raccolto non da altri certamente che da’  loro medesimi popoli: siccome òmeros vogliono pur essersi detta da omoù , ‘simul’, ed eìrein, ‘connectere’, ove significa il ‘mallevadore’, perocché leghi insieme il creditore col debitore. La qual origine è cotanto lontana e sforzata quanto è agiata e propria per significare l’Omero nostro, che fu legatore ovvero componitore di favole”. Dove però “compositore” – si badi – vuol dire non tanto “autore”, bensì “raccoglitore”, “ricucitore”, o “consarcinatore”, “accumulatore”, “di canti”.

L’origine della nuova etimologia è ‘sforzata’ e ‘lontana’ per quanto ‘agevole’ e ‘piana’, commenta qui lo stesso Vico. Ora  tocca, piuttosto, riaccreditare il senso economico e primigenio dell’etimologia dei “rapsodi”, quindi di “Omero”: “”il ‘mallevadore’, perocché egli leghi insieme il creditore col debitore” . Vero è che al comma XXX: “E’ pur tradizione che Omero fu cieco, e dalla cecità prese sì fatto nome, ch’in lingua ionica vuol dire ‘ cieco ‘”. Ma è anche un “cieco”, che, come rapsodo, è “mallevadore”, dal momento che “lega insieme il creditore col debitore”: – e cioè, “Iliade” e “Odissea”; e: “Sopra si son arrecate forti congetture l’Omero dell’Odissea essere stato dell’occidente di Grecia verso mezzodì, e quello dell’Iliade essere stato dell’oriente verso settentrione”; “Ma forse Longino formò cotal congettura, perché Omero spiega nell’ Iliade la collera e l’orgoglio di Achille, che sono propietà dei giovani, e nell’ Odissea narra le doppiezze e le cautele di Ulisse, che sono costumi dei vecchi”; e i “di lui caratteri poetici, che in una sublime acconcezza sono incomparabili, quanto Orazio gli ammira, furono generi fantastici”; “Come ad Achille, ch’è il subbietto dell’Iliade, attaccarono tutte le propietà della virtù eroica e tutt’i sensi e costumi uscenti da tali propietà di natura, quali sono risentiti, puntigliosi, collerici, implacabili, violenti, ch’arrogano tutta la ragione della forza, come appunto gli raccoglie Orazio ove ne descrive il carattere. Ad Ulisse, ch’è il subbietto dell’Odissea, appiccarono tutti quelli dell’eroica sapienza, cioè tutti i costumi accorti, tolleranti, dissimulati, doppi, ingannevoli, salva sempre la propietà delle parole e l’indifferenza dell’azioni, ond’altri da se stessi entrasser in errore e s’ingannassero da se stessi”.

Così, il “conguagliamento”, o “agguagliamento”, omerico sta anche nella parità tra grandezza di Priamo e grandezza d’Achille; pianto dell’uno e pianto dell’altro; o il pianto e racconto mitico di Odisseo di fronte ad Alcinoo e al suo rapsodo, che canta le gesta di Troia: invero, nella correlazione affettiva e interpersonale; nella fenomenologia dell’affettività e corresponsione; “guisa” classica di percezione “analogica”. Quindi, si tratta di un valore “economico”, di parità tra “credito” e “debito”, nel “mallevadore” che è anche il “poeta”, che però appresta la materia vitale – per così dire – alle due “scienze mondane” ( teorizzate in età moderna dal Croce ), con singolare capovolgimento, o metabasis, di prospettive; dove è l’”economico” che struttura il “poetico” e il “fantastico”, recando in seno il messaggio di comunicazione intrinseca e di bilanciamento dei conti morali perché pratici, ed estetici perché fantastici.

In queste pagine stupende, Vico dà la traccia alla potenza ermeneutica filosofica moderna, asserendo non potersi fare parafrasi della poesia né traduzioni o imitazioni della creazione fantastica, come aveva detto Cervantes a proposito dello stesso Ariosto, ancor qui citato da Vico: “De’ quali il primo è: se essi non ne faranno oziose parafrasi, come osserviamo tuttavia uomini leggere l’ Orlando furioso o Innamorato o altro romanzo in rima a’ vili e larghi cerchi di sfaccendata gente gli dì delle feste, e, recitata ciascuna stanza, spiegarla loro in prosa con più parole; – il secondo, se non ne saranno fedeli traduttori; – il terzo ed ultimo avviso è: se finalmente non ne saranno servili imitatori, ma, seguitando i costumi ch’ Omero attribuisce a’ suoi eroi, egli da tali stessi costumi faranno uscire altri sentimenti, altri parlari, altre azioni conformi, e sì circa i medesimi subbietti saranno altri poeti da Omero”.

Per la “interpretazione” o “traduzione” ( ‘impossibile’ ) della poesia, si deve dunque far leva su (“far uscire”) altri sentimenti, altri parlari, altre azioni conformi, su cui “saranno altri poeti da Omero” ( E’ lo stesso mònito dettato a distanza di secoli da Croce, riprendendo le lodi della lingua italiana originale del “divino Ariosto”, lodi già tessute da Miguel de  Cervantes nel suo Quijote ).

Nella infinità dell’interpretazione, al capov. 683-684 della Scienza Nuova seconda, noto che ancora Nicolini vede un “errore”, o fraintendimento, vichiano che non c’è. “Eumeo ( siamo nel XV dell’ Odissea, quando Telemaco arriva alla capanna del pastore ), nel raccontare a Ulisse i casi della sua puerizia ( XV, 411 sgg. ), dice non che nelle due città dell’isola Siria, rette da suo padre Ctesio Ormenide, i cittadini di ciascuna, rispetto a quelli dell’altra, ‘avevano distintamente tutte le loro cose divise’, ma che esse erano pari per forza e ricchezza” ( “Commento”, cit., Roma 1950, I, p. 299 ). E invece no: anche se vi si può sottintendere un ‘altro’ significato, Eumeo propriamente racconta:  “Ora ti narrerò quello che chiedi e ricerchi. / Siria chiamano un’isola, se mai tu l’udivi, / sotto Ortigia, dov’è il calare del sole, / non molto abitata, per vero, ma buona, / ricca di vacche, di greggi, di viti, di grano. / (..) Ci sono due borghi: in due parti tutto fra loro è diviso: / e sull’una e sull’altra era re il padre mio, / Ctèsio Ormenide, simile agli immortali” ( versione di Rosa Calzecchi Onesti ). Oppure: “Vi sono lì due città e tutto tra loro è diviso in due, / e su entrambe regnava mio padre / Ctesio figlio di Ormeno, simile agli immortali” ( versione di G. Aurelio Privitera, Fondazione Lorenzo Valla, 1981, pp. 464-465, ai vv. 402-414 ); corrispondente al testo viciano: “avevano distintamente tutte le loro cose divise”, anche se prelude alla città del giudizio, “parlamenti leggi e pene”, dove il “giudizio è reso dai padri” al cospetto del popolo, “variamente parteggiante tra due litiganti per una multa che l’uno affermava pagata, l’altro no” ( capov. 684; Nicolini, l.c. ).

 Il “pareggiamento nel giudizio”, come saggezza e dolcezza nel giudicare, disegna così un profilo ermeneutico-giuridico, ove la “parità”, che ho di sopra notata, si estende, dalla sfera economica alla estetica, e da codesta ancora alla forense o giuridica. Il “Pareggiamento” è anche “equiprobabile” nel giudizio; e svolgentesi come su di un “palcoscenico a due piani”, nelle storie epiche narrate. Sia consentita breve digressione sul tema del “bilanciamento”, in tutte codeste prospettive, epiche esistenziali e giuridico-forensi.

Bene accerta Alfred Heubeck: “In modo affascinante, il poeta del’Iliade aveva lasciato scorrere dinanzi ai nostri occhi gli eventi bellici troiani su un palcoscenico a due piani. L’aspra lotta per la città viene affrontata a un tempo da uomini e dèi, le situazioni e gli eventi terreni si rispecchiano nel regno degli Olimpi, e spesso questo parallelismo si trasforma in connessione inestricabile. (..) E su entrambi i mondi si inarca l’ampia volta del destino, potenza incomprensibile e inesorabile, che impone saldi limiti a quanti vivono sotto di essa: limiti di vita ai mortali e limiti di potenza agli dèi sempiterni, quando agiscono tra i loro nipoti e pronipoti. Neanche loro possono spostare  i termini della morte. Non si può disconoscere che questa concezione ha avuto ampia e paradigmatica influenza anche sul poeta dell’ Odissea, e non può sfuggire che certe differenze sono state determinate dalla diversità del materiale epico. (..) Ed è ancora più importante che gli dèi, nell’epos più recente, intervengano di rado in forma attiva: diversamente dall’ Iliade, in cui l’azione divina e quella umana addirittura s’intrecciano, nell’ Odissea i singoli dèi si contentano di singole azioni puntuali, ma di efficacia tanto più durevole” ( Fondazione Lorenzo Valla, cit., pp. XXII-XXV ).

Ancora: “La via che il padre degli dèi deve percorrere per divenire il signore del mondo  secondo giustizia non è più così lunga. Con questa eticizzazione degli dèi è connessa la convinzione, espressa dal poeta per bocca del sommo dio, che gli uomini possano mutare col loro comportamento il destino loro imposto. Certo questa libertà umana viene formulata expressis verbis in maniera soltanto negativa, in un primo tempo: chi pecca, deve attendersi la punizione, che gli procura una fine obbrobriosa anche ‘prima del tempo’ ( I, vv. 34 sgg. ). Che però non manchi una contropartita positiva di questa convinzione, il poeta lo rivela con tutta la sua opera: chi osserva la giustizia e l’ordine e venera gli dèi può sperare in una ricompensa per le sue azioni e i suoi sforzi. A noi sembra che la via che conduce dall’ Iliade all’ Odissea sia più lunga di quella che porta dall’ Odissea a Solone e ad Eschilo”. Il richiamo ad Eschilo è quanto mai calzante per l’opera di un autore tragico, le cui “Erinni” si trasformano in “Eumenidi”, e per il quale si bilanciano la colpa e la giustizia giusta, da Tieste ad Atreo, da Atreo ad Agamennone, da Agamennone a Clitennestra che vendica il sacrificio di Ifigenia, e da Clitennestra al figlio Oreste che vendica il padre. Nello stesso Eschilo, però, alla fine: “Anche le Erinni, che in tribunale parlano a condanna di Oreste matricida, vedono ‘equiprobabile’ il verdetto dei giudici, sì che Oreste è alla fine assolto”. (9) Tutta codesta ermeneutica del tema della giustizia e del complesso rapporto tra dèi e uomini in Omero e nella legislazione e teologia successiva, entra in campo anche grazie al gioco inarreso delle etimologie di Omero, con cui Vico ci ha aperto altri “sentieri” ( il poeta “cieco”; il poeta che “pareggia le sorti”).

Vico è pluriprospettico e poli-semantico: fa “volare l’immaginazione”, a noi come a Joyce nella confidenza a Kristensen ( mentre Freud o Jung non lo fanno ): il fatto stesso che il termine di paragone rispetto al Maestro italiano sia stato così ritagliato, e attualizzato, dal genio irlandese, la dice lunga, in tema di “complessità” e “fatticità” ermeneutica.

L’essere “mallevadore” di crediti con debiti, significa perciò anche: “mettere insieme”, “com-porre i poemi”. Il poeta, “cieco”, e che “pareggia i conti”, è anche  “raccoglitore di poesie e poemi”., o “consarcinatore di canti”. Da una parte, siffatto parallelo è già di tanto significativo: ponendoci sulla “via” che – in un’epoca “moderna” totalmente diversa – porterà alla individuazione delle “Due scienze mondane” – La “Economica e la Estetica”. (10)

Ma dall’altra, l’approfondimento della teologia e antropologia omerica ci fa capire che il Poeta, “cieco”, e “che pareggia i conti”, in effetti – o meglio – “tende a pareggiare le sorti”, di giustizia-ingiustizia ( come nel frammento di Anassimandro, “Secondo il man-tenimento, tutte le cose a vicenda pagano il fìo” ); tra pianto di Priamo e pianto di Achille; ammirazione vicendevole dell’uno verso l’altro, “simile a un Dio”; mondo degli dèi e mondo degli uomini, con influssi e intrecci multipli nell’un poema ( Iliade ) e ricompensa per la “prudenza” e “saggezza” dimostrate, a fronte di una minore invadenza olimpia nell’altro ( Odissea).

Così, il “pareggio di bilancio” esistenziale – in Omero – diventa la Tendenza alla parità, tra “debiti e crediti”, “dare e avere”, nel momento di trasferirsi sul versante delle passioni ( amore – dolore ), delle istituzioni normative ( ragione e torto, Re e assemblea, addolcimento del Giudizio con “dolce parola in assemblea” ), e del rapporto complessivo tra gli uomini e le divinità ( in “Iliade” e “Odissea” ). Vero è che già Aristotele, nella Poetica 1459b, 13-6, poneva a confronto i due poemi, ravvisando una struttura “semplice” per l’ Iliade, di fronte ad una più “complessa” per la Odissea, stante la sovrabbondanza degli “episodi” ( rispetto al progetto di fondo, in Poetica, 1455b 17-23 ). Ma si tratta sempre di una “struttura rigorosamente speculare”: divisa in due parti di dodici libri, ognuna delle quali contiene tre sezioni di quattro libri: a) Telemachia”; b) Feacide; c) Apologoi, o racconti di avventure; d) arrivo a Itaca e ospitalità di Eumeo; e) Odisseo mendicante a Itaca e in preparazione della cacciata dei Proci; f) gara con l’arco e vendetta finale di Odisseo ( Aurelio G. Privitera ). 

Dunque, la “tendenza al pareggiamento dei conti” permane, pur nelle differenze di ispirazione eroica e mitica, che attinge alla vicinanza dei luoghi e dei siti noti, come dice Vico nella sua Geografia poetica ( Scienza Nuova seconda, II, 3, “che gli uomini le cose sconosciute e lontane, ov’essi non ne abbian avuto la vera idea o la debbano spiegar a chi non l’ha, le descrivono per somiglianza di cose conosciute e vicine” ); ma anche alla corrispondenza tra tappe dispari del viaggio ( Ciclope, Lestrigoni, Ade, Scilla e Cariddi, Calipso ), che sono contraddistinte dall’ “elemento infero o occidentale” e le tappe pari contrassegnate invece “dall’elemento solare e orientale”, secondo lo schema Oriente-Occidente tipico del labirinto cretese. (11)

Si assiste, inoltre, a una sorta di “principio d’indeterminazione”, detto “legge dei tempi morti”, in Odissea: onde due personaggi non possono agire simultaneamente in due luoghi differenti, ma solo nella stessa scena, per cui nei giorni in cui Telemaco è a Sparta, Odisseo è inattivo; mentre quando Odisseo viaggia da Ogigia a Itaca, è Telemaco ad essere inattivo. (12)  Come se, nella moderna fisica quantistica, se conosciamo la velocità delle particelle subatomiche, non possiamo contemporaneamente conoscerne la posizione. Il che accade perché l’osservatore influenza la realtà osservata; alla stessa stregua che il poeta Omero, erede di più rapsodi o “raccoglitore” di canti, narrando di Odisseo, è indotto a seguirne esclusivamente i viaggi, lasciando inoperoso Telemaco; mentre registrando gli spostamenti di Telemaco in Sparta, non può aver l’occhio simultaneamento per Odisseo. Il ‘percorso filmico’ o ‘cinematico’ di osservazione omerica corrisponde mirabilmente alle proprietà di illuminazione dei ‘fotoni’ nella microfisica. (13)

Sì che Omero, meravigliosamente, è “cieco”, ma è un “cieco” che “tende” al pareggiamento dei canti. E Vico ricorda nella degnità XXXII delle “Pruove per la discoverta del vero Omero”, anticipando il futuro destino di Joyce ammalato gravemente agli occhi e “tendente” alla cecità: “Ed è propietà di natura umana ch’i ciechi vagliono maravigliosamente nella memoria”.

La Memoria, madre delle Muse, è menzionata in Vico. Come nel Proemio alla Teogonia di Esiodo

son espressi cenni biografici con la esortazione: “Orsù, dalle Muse iniziamo, che a Zeus padre / inneggiando col canto rallegrano la mente grande in Olimpo; / dicendo ciò che è, ciò che sarà, ciò che fu, / con voce concorde; e instancabile scorre la voce / dalle loro bocche, dolce”. “La parola è duplice, ambigua: può infatti riferire menzogne simili al vero; o può il vero cantare. In ogni modo, le Muse sono ‘abili nel parlare’. La loro voce è ‘dolce’; prospetticamente tesa a cantare passato presente e avvenire”. “In opposizione a ‘discorsi e ambigui pensieri’; là dove si parla di Contesa odiosa che genera Pena dolente e altri contrasti, “Discordie e inganni” ( vv. 226-232 della “Teogonia” ), Esiodo canta: “Ponto generò Nereo, sincero e verace, / il più vecchio dei figli; per questo lo chiamavano vecchio / perché non inganna ed è benigno; né il diritto / dimentica e sa giusti e buoni pensieri..”. (14) Anche Zeus sa “eterni consigli”, di fronte a Prometeo che sogghigna, “sommesso” e dai “torti pensieri”. “Zeus riconobbe l’inganno, né gli sfuggì, e mali meditava entro il suo cuore / per gli uomini mortali e a compierli si preparava”. Ma dialetticamente “Zeus, re degli dèi, per prima prese e sposo Meti, che sa più di tutti gli dèi e gli uomini mortali”: personificazione della “saggezza”, nel tribunale giusto, dove assiste Ecate “benigna” ( Teogonia, vv. 886 sgg. ).

Invece, nel cosiddetto “Medioevo ellenico”, epoca tra arcaicità delle strutture micenee ( Iliade ) e aristocraticità delle colonizzazioni elleniche ( Odissea ), l’assemblea omerica “serviva al re come scandaglio dell’opinione pubblica, come il consiglio degli anziani gli rivelava i sentimenti dei nobili”. L’addolcimento – adeguamento giuridico di caratterizzazione esiodea rifletteva, piuttosto, un “rischio calcolato” da parte del re: “Il re che trascurava il sentimento predominante era nel suo diritto, però correva un rischio, poiché ogni regnante deve calcolare la possibilità che quanti per legge o per consuetudine sono tenuti a obbedirgli, un giorno possano rifiutargli obbedienza, con la resistenza passiva o con l’aperta ribellione”. (15)

In altro capitolo, ho visto la “tendenza alla deità” propria dell’ “archetipo” junghiano, a confronto del “senso comune” vichiano. Ora, la “tendenza al bilanciamento” di orizzonti destinali, passioni, retti consigli e giustizia benigna, è riscoperta in Omero, alle origini dello spirito europeo. Per inciso, Nicolini non postilla alcunché a proposito di “mallevadore”, o “mallevadore che leghi insieme creditori e debitori”, epperò anche “connetta insieme poemi”, a proposito dell’asserto viciano che ha dato origine al presente percorso.

Tutto il campo teoretico è dominato dalla accezione centrale delle “guise”: “Natura di cose altro non è che nascimento di esse in certi tempi e con certe guise, le quali sempre che sono tali, indi tali e non altre nascon le cose” ( Libro I-Sezione  II, par. 147 Nicolini ). Si potrebbe perciò dire che, se la “tendenza alla deità” e altri idealtipi forma il prototipo dell’ archetipo junghiano, la “tendenza verso le guise” o ‘modalità’ è la specie del senso comune vichiano. Il “pareggiamento” è “guisa” quant’altre mai, in campo giuridico, dottrinale, teoretico. La “Probabilis ratio” è ricercata dal Vico in un passo ( pur se solitamente controverso ) di Ulpiano. Storicisticamente luminoso è l’assioma, nello stesso contesto: “Le dottrine debbono cominciare da quando cominciano le materie che trattano”. La “sapienza” in Platone ( dall’ Alcibiade ) è propria della “scienza del bene e del male”. Ancora, la “sapienza è perfezionatrice dell’uomo” ( precorrendo Manzoni, Constant, Croce, Albertelli e tutti i maggiori della “religione della libertà” ). (16)

 La tendenza al “pareggiamento” è valore comune alla “Teologia civile” amministrata dalla Provvidenza; e alla “Economia delle cose civili”. Inoltre, avviandosi alla “Conchiusione dell’Opera”, il Vico accerta il pareggiamento tendenziale dei ceti sociali, con felice “mediazione dialettica”. “Ma, col volger degli anni, vieppiù l’umane menti spiegandosi, le plebi de’ popoli si ricredettero finalmente della vanità di tal eroismo, ed intesero esser essi d’ugual natura umana co’ nobili; onde vollero anch’essi entrare negli ordini civili delle città. In cotal guisa, tra essi ordini civili trammeschiandosi vieppiù l’ordine naturale, nacquero le popolari repubbliche: nelle quali, poiché si aveva a ridurre tutto o a sorte o a bilancia, perché il caso o ‘l fato non vi regnasse, la provvidenza ordinò che il censo vi fusse la regola degli onori: e così gl’industriosi non gl’infingardi, i parchi non gli pròdigi, i providi non gli scioperati, i magnanimi non gli gretti di cuore, ed in una i ricchi con qualche virtù o con alcuna immagine di virtù non gli poveri con molti e sfacciati vizi, fussero estimati gli ottimi del governo”. (17)

La “Pietà” vichiana, la “moralità” crociana e i presupposti dei “modi categoriali”.

La tendenza al “pareggiamento” dei conti sociali e morali assurge, perciò, ai vertici della umana “pietà”, corrispondente alla moderna dottrina verticale della “dolcezza” ( sia nel ‘giudizio’ e nel ‘senso’, che nella ‘cura’ e nella ‘lotta’ ), e la sola in grado di sconfiggere “La barbarie della riflessione che non era stata la prima barbarie del senso”, ripristinando il senso comune nel “Ricorso”. “Insomma, da tutto ciò che si è in quest’opera ragionato, è da finalmente conchiudersi che questa Scienza porta indivisibilmente seco lo studio della pietà, e che, se non siesi pio, non si può daddovero esser saggio”. (18) L’intento devozionale ( “se non siesi pio” ), di fronte al sempre imminente giudizio ecclesiastico, in realtà si dilata mirabilmente in una nuova concezione di tutta la storia umana, della “pietà” come sintesi di tutte le sintesi, del giudizio storico di fronte all’ “accadimento”. Lo conferma il Capitolo III,  Della morale poetica del Libro secondo, Della sapienza poetica, in cui gli stessi “giganti pii” son fatti risalire – con richiamo al Platone dell’ Eutifrone ( 12, e-d ) – al “Polifemo d’Omero”, “perché gli auguri non possono vivere certamente tra gli atei. Quivi la morale poetica incominciò dalla pietà, perch’era dalla provvedenza ordinata a fondare le nazioni, appo le quali tutte la pietà volgarmente è la madre di tutte le morali, iconomiche e civili virtù; e la religione unicamente è efficace a farci virtuosamente operare, perché la filosofia è piuttosto buona a ragionarne. E la pietà incominciò dalla religione, che propiamente è timore della divinità. (..) E ne restò eterna propietà appo tutte le nazioni: che la pietà s’insinua a’ fanciulli col timore di una qualche divinità” ( mie le sottolineature nel testo edito da Paolo Rossi, alla pag. 502 ).

Si badi a un’altra premessa o anticipazione viciana, preziosa per quanto inesplorata: quella dei moderni “modi categoriali” rintracciati con Croce e in Croce, ma non esplicitamente tematizzati nel nostro Auttore. Come la Memoria è madre di tutte le ( nove ) Muse, così la Pietà è madre di tutte le morali ( familiari e civili, economiche e sociali, etiche e pratiche ed utilitarie ). Non è codesto lo stesso ruolo, e altissimo ufficio, assegnato da Croce alla “moralità” nel 1938 nella Storia come pensiero e come azione, tale che “la moralità stessa, per attuarsi praticamente,  si fa passione e volontà e utilità, e pensa col filosofo, e plasma con l’artista, e lavora con l’agricoltore e con l’operaio, e genera figli ed esercita politica e guerra, e adopera il braccio e la spada” ? E l’ufficio stesso – esiodeo e vichiano –  della Memoria “madre di tutte le Muse”, non risponde al nostro ripensamento delle funzioni categoriali “memoria – sentimento – tempo”, dipanate con Kant e da Kant in poi ? 

In Omero – per tornare alla fonte dei “libri assolutamente primi”, come definiti da Giorgio Hegel -, la “propensità al conguagliamento” del poeta che “pareggia le parti” apre una fitta serie di richiami, la cui esistenza sostanzia la sfera giuridico-formale. Nell’assioma del capov. 283-284 si apprende, con non perenta attualità sulla ricerca del “particulare” da parte delle classi o corporazioni, che non hanno a cuore l’interesse generale o a proposito della proliferazione legislativa favorita dagli “ambiziosi”, che: “I deboli vogliono le leggi; i potenti le ricusano; gli ambiziosi, per farsi séguito, le promuovono; i prìncipi, per uguagliar i potenti co’ deboli, le proteggono.” – “Questa degnità – commenta Vico –, per la prima e la seconda parte, è la fiaccola delle contese eroiche nelle repbbliche aristocratiche, nelle quali i nobili vogliono appo l’ordine arcane tutte le leggi, perché dipendono dal loro arbitrio e le ministrino con mano regia. (..) Questa stessa degnità, per la terza parte, apre la via agli ambiziosi nelle repubbliche popolari di portarsi alla monarchia, col secondare tale desiderio natural della plebe, che, non intendendo universali, d’ogni particolare vuol una legge” ( Vico reca l’esempio di Silla ). (..) E questa degnità medesima per l’ultima parte, è la ragione arcana perché, da Augusto incominciando, i romani prìncipi fecero leggi innumerevoli di ragion privata e i sovrani e le potenze d’Europa  dappertutto, ne’ loro stati e repubbliche libere, ricevettero il Corpo del diritto civile romano e quello del diritto canonico”. (19)

Gli ambiziosi e i demagoghi incrementano le leggi, “per farsi séguito” ( poi – con l’accumulo elefantiaco di leggi –  le “grida” manzoniane o le “riforme” legislative a tutto spiano ). I prìncipi illuminati, “dappertutto”, per opera dei sovrani o delle libere repubbliche europee ( ma già a principiar da Augusto ), “per uguagliar i potenti co’ deboli, le proteggono”.

Critica omerica e critica  alla Legge delle XII Tavole.

Tutto ciò si trasferisce e prosegue nella critica parallela viciana alla autenticità della “Legge delle XII Tavole”, dove il paragone con la questione “omerica” costituisce il vero fulcro ideale e storico della contro-argomentazione. In effetti, nel Ragionamento primo d’intorno alla legge delle XII Tavole venuta da fuori in Roma, Vico scrive che le “due mutazioni massime del romano stato e governo, non sono giammai state nel mondo”, e, “con un fato comune ad entrambe di una, ch’è la legge delle XII Tavole, si è tanto variato circa al luogo dond’ella sia venuta; dell’altra, ch’è la legge regia, si è variato tanto tanto circa il tempo nel qual essa sia stata comandata: Talché entrambe fanno l’Omero ch’è stato finor creduto”.  (20)

La Legge delle XII Tavole “ha corso l’ istesso destino che ha corso Omero: ché, come, perché questi è stato finor creduto un particolar uomo valentissimo, in eroica poesia, che i suoi poemi erano due grandi testimoni del diritto delle genti di Grecia, siccome per un intiero di questi libri da noi pienamente si è dimostrato: così, perché questa legge è stata finor creduta tutta ad un colpo comandata a’ romani, non si è saputo ch’ella era un gran testimonio del diritto naturale delle genti del Lazio”. (21) Il paradigma del “pareggiamento” insiste ancora nei paragrafi, dello stesso scritto esegetico e critico sulla Legge delle XII Tavole, a proposito dei “pareggiatori attici”, ossia dei giureconsulti che “agguagliano le leggi di Solone con il diritto romano”. (22)

E in fondo lo stesso giudizio su Omero storico, soltanto “per la metà”, visto sul piano metodico o ( diremmo oggi ) epistemologico, altro non è che l’accentuazione tendenziale, equiprobabile, non matematica ma storica, di ciò che Vico chiama la “topica”, l’arte e del ritruovare e del rinvenire, prima ancora che del giudicare le cose, facoltà dell’ “invenzione”: “Ch’i primi autori dell’umanità attesero asd una topica sensibile, con la quale univano le propietà o qualità o rapporti, per così dire, concreti degl’individui o delle spezie, e ne formavano i generi loro poetici “ ( “Ultimi corollari d’intorno alla logica degli addottrinati”, 7 paragrafo della Logica poetica, Seconda Parte della Logica poetica, in Opere curate da Rossi, pp. 495-499 ). L’arte del ‘ritruovare’ – dirà poi il Franchini – è l’arte della ‘libertà’, in quanto invenzione e non solo raccolta materiale degli argomenti.

E’ nel giudizio storico, che Omero è esistito, come per la metà storicamente, per l’altra certamente in quanto poeta-simbolo. Siamo così di fronte, non solo a una vicissitudine erudita riguardante la complessità della “Questione omerica”, ma anche e specialmente a un nuovo “procedimento della vita dello spirito” ( Croce 1911 ). Non è stato affatto notato, finora, né dal Croce nei tanti saggi di soggetto vichiano, né tantomento dal Nicolini nel gran Comento, che il nuovo procedere dei sensi o significati vichiani, con il loro dilatarsi a nuova “filosofia dello spirito” storicamente riconsiderata, riposa sempre in una rigorosa accentuazione giuridica, riferita al “diritto naturale delle genti” e al procedimento delle accuse e delle difese, della allegazione delle pruove o del loro “accrescimento”. Nel presente caso, quanto Vico scrive di Omero e dei rapsodi, esser cioè costoro “Consarcinatori di canti”, evidenzia un termine raro e letterario: “Chi, insieme con altri, si adopera a render più grave un’accusa, un’insinuazione, una diffamazione”. Così, il pregevole Dizionario del Battaglia. (23) La derivazione dotta del termine è dal latino “sarcinare”, ossia “caricare”, da “sarcina” o “peso”: come “aggiungere il carico”, in senso giuridico-forense, anche “a sangue” ( aggiungo, da “sarx, sarcos”, “carne”, donde il “sarcasmo”, ‘sferzare a sangue’ ). Perciò, per Omero e i rapsodi, al dir del Vico, esso vale “sovraccaricatori di canti”, a indicare la sovrapposizione e a volte la farragine dei divini poemi, frutto di una collaborazione e ricucitura non sempre ordinata e coerente, concresciuta nel tempo. La fonte viciana non è allegata nel Battaglia, che si ferma alla testimonianza dettata da Vincenzo MONTI, III, 161. (24) Ma ritengo utile e calzante, forse risolutivo, il mio restauro per il concetto rapsodico dei “raccoglitori accresciuti e sovraccaricati di canti”, ai fini della presente ermeneutica filosofica e critica omerica. Il Monti ( Alfonsine di Romagna 19 febbraio 1754 – Milano 13 ottobre 1828 ) apprese del Vico dagli esuli napoletani del 1799, e si dedicò alla traduzione del Liber Metaphysicus, apparsa anonima, quindi ripubblicata nei due volumetti delle Opere del Vico, curate da Nicola Corcia ( Tipografia della Sibilla, Napoli 1831 ) e poi nell’edizione di Giuseppe Ferrari ( Milano 1840, III, Parte II ). (25)

Soprattutto, il Monti mostrava d’esser profondamente intriso del pensiero e linguaggio vichiano nella prolusione Della necessità dell’eloquenza ( Pavia, 29 novembre 1803 ), dove esortava i giovani allo studio del Nostro, ponendo tuttavia in circolazione il pregiudizio del filosofo che “pensa da semidio e scrive da ostrogoto”. “Se questi ardui pensamenti, sparsi della più sublime filosofia e di peregrina incredibile erudizione, venissero raccomandati da una lingua più liberale, più tersa, più fluida, il poeta, l’oratore, il legislatore,  il filosofo non avrebbero libro per avventura né più utile né più caro. E chi amasse di chiamar a rivista le idee generatrici e profonde delle quali si è fatto saccheggio nel Vico, tesserebbe un lungo catalogo e nuocerebbe a molte reputazioni”. (26)

Dove il Croce postilla, richiamando i prestiti vichiani del Monti: “proprio il Monti, così ricco d’ingegno, e proprio nell’atto che lanciava cotali anatemi contro i saccheggiatori della Scienza Nuova, la saccheggiava per suo conto. E, invero, in quel medesimo corso d’eloquenza, secondo testé  ha posto in rilievo il Nicastro, insegnava ai suoi ascoltatori pavesi, guardandosi bene dall’avvertire che traeva questi pensieri dal capolavoro vichiano, ch’ Omero valevasi di una lingua la più poetica di quante siano mai state parlate…”. (27) A prova ineludibile che il libro vichiano di critica omerica

era stato posseduto sino al midollo, in questo caso lessicale e insieme filologico e filosofico, dal Monti: quindi, anche il termine dotto e rarissimo “Consarcinatori” ( piegato dal Monti al proprio caso autobiografico ) era dovuto alla ricercata e profonda penna del filosofo napoletano. (28)

Ermeneutica filosofica della “critica omerica”.

L’ermeneutica filosofica attuale della stessa “critica omerica” non può non essere prossima alla considerazione epistemica. Del resto, epistemologia ed ermeneutica, “geminae ortae sunt”, si potrebbe ripetere con Gadamer e Popper, a memoria della celebrata formula del Vico.

I. Qui, si è partiti dalla esegesi di Fausto Nicolini, sempre attenta e puntuale, solo talvolta ingenerosa, a proposito dei “tre aspetti” della Questione omerica.

II. In un secondo momento, si sono rintracciate le varie accezioni del concetto di “sapienza riposta”, che alcuni interpreti avevano “opinato” in Omero, ma che il Vico recisamente contesta: con la novità di aver approfondito le “guise” di essa “sapienza riposta”, facendone fiorire i sensi più moderni e complessi di “Ragione”, “Dottrina”, e “Teoria” relazionale e fenomenologica.

III.Quindi, si è risaliti alla dicitura etimologica variegata di “Omero”, presso il Vico: non solo “poeta cieco”, sì – bene – “consarcinatore di canti”, “mallevadore di debiti con crediti”, “com-positore” di poemi o “com-ponitore di favole”.

IV. Tutto ciò comporta necessariamente la analisi etimologica interna, e con essa la spiegazione teoretica e critica, di ciascuno di questi termini: “sovraccaricatore” o “accumulatore di canti”, in primo luogo; “Pareggiatore” che “leghi insieme il creditore col debitore”, in seconda battuta; “legatore” insieme e compositore di poemi, in ultima analisi, tal dicesi Omero.

V. Questo intreccio di motivazioni e di etimologie fa volare l’interpretazione ancora oltre, verso i percorsi della estetica filosofica moderna e contemporanea, ove si ravvisano – a partire dal Settecento – le premesse e le basi delle “Due scienze mondane: L’Estetica e l’Economica”

( direttamente nel Croce del 1931 ma con ulteriori finezze, preannunciate nel poeta simbolista francese Mallarmé, che discorreva sul finire del XIX secolo di “Magia”; e con le derivazioni e amputazioni interpretative nel filosofo Jacques Derrida, lettore del Mallarmé ).

 VI. Qui, dove molto “nasce” e cioè nel pensiero di Vico ( detto da Isaiah Berlin “ sì ricco e confuso” ), il concetto economico di “mallevadore” fornisce la struttura “economica” per la tesi “estetica” di ‘com-posizione’ o armonizzamento ed eguagliamento delle parti poetiche. (29)

VII. Croce stesso allude per un attimo alla etimologia apprestata dal D’Aubignac, a difesa di Omero non “cieco” ma “ compositore”; e così sostiene la propria valutazione storica del Vico non tanto “inventore della Questione omerica” ma “primo grande critico di Omero, e iniziatore degli studi moderni sulle civiltà primitive e sui miti”. (30)

VIII. Ancora, con la irresistibile forza dell’argomentazione, tutto ciò ha comportato la valutazione della “tendenza” o “propensione” al Pareggiamento teoretico, proposto in varii luoghi dallo stesso Vico; e tale da riposare nei luoghi o momenti culminanti ( beninteso, trascelti alcuni soltanto ! ) dei poemi omerici.

IX. Qui, la lettura diventa olistica o epistemica: ravvisando le “proprietà disposizionali” nella poesia di Omero, anche sulla base dei più recenti studi a proposito dei viaggi e delle strutture dei due poemi: come “proprietà disposizionali”, sarebbero ( nella lettura ormai classica degli antichi dèi greci e della fisica contemporanea condotta da Karl Popper ) i teoremi concernenti le particelle subatomiche e il “principio d’indeterminazione” di Heisenberg.

X. Oso affermare la tesi di una “verità ideale eterna”, di un “fondo comune di verità”, nel racconto epico e mitico ( Omero ) come nelle formole della microfisica “equiprobabile”, “tendenziale” e “prospettica” del nostro mondo.