In vent’anni di dirigenza scolastica mi è capitato più volte di discutere con i miei collaboratori del modo di vestirsi e di parlare dei nostri alunni, non di scuola superiore ma della secondaria di 1° grado, le vecchie medie. Un giorno di qualche anno fa mi venne l’idea di lanciare un dibattito educativo con i genitori sulla pagina Facebook della nostra scuola, piazza virtuale sulla quale spesso ci confrontavamo attorno a temi di attualità e scelte generali. Un giornalista che ne faceva parte riprese la questione con un articolo sulla Stampa di Torino e, in men che non si dica, mi ritrovai nel tritatutto dei media. Improvvisamente sembravo essere diventata la Preside “cattiva e retrograda” perché parlavo di buon gusto e limiti. Fui contattata da giornalisti di tutta Italia, da Pif, da “Mattino in famiglia” e da “La vita in diretta”, che fece un’intervista dal mio soggiorno, in cui risposi alle domande con la gamba ingessata poggiata sul tavolino di vetro. Ciò che interessava i giornalisti era sentirmi dire che “questi brutti e cattivi dei miei alunni” avrebbero dovuto indossare una divisa da frate e stare zitti e buoni. In realtà, in adolescenza, tutti gli educatori lo sanno, il meccanismo dell’imposizione di regole (tranne quando vi è una condotta violenta, pericolosa o gravemente offensiva), funziona veramente poco. I giovani si sentono naturalmente in contrapposizione all’adulto e si ottiene spesso una reazione esagerata ed incontrollata. Ciò che invece avrei voluto, era pensare, con le famiglie, ad un modo per far comprendere ai ragazzi come ci si deve comportare in ambienti in cui la provocazione sessuale, l’aggressività e l’esagerazione non devono trovare casa. Mi venne quindi in mente di creare un progetto sperimentale, per cui ottenni anche qualche fondo dal Piano Triennale delle Arti, che si intitolava “That’s me”, questo/a sono io. L’obiettivo era di lavorare con esperti del settore immagine e relazioni, per comprendere meglio la propria personalità, accettare le proprie caratteristiche e scegliere, a ragion veduta, un’immagine che li rispecchiasse nel profondo. Uno dei problemi dei giovani è, come tutti sanno, l’omologazione al gruppo dei pari, con l’adozione di comportamenti ”conformisti”, che però nascono da provocazioni. Partiti quindi con una classe terza, effettuammo gli incontri con una fotografa di moda (tre scatti: come mi vedo, come mi vedono gli altri, come vorrei che mi vedessero), con un’esperta di bon ton (per apprendere le regole basilari della relazione con gli altri nei diversi contesti), con una psicologa (per riflettere sulla propria personalità, sui propri bisogni e sulle proprie paure) e con una stilista nonché docente delle Scuole Professionali San Carlo (per creare un vademecum dell’immagine secondo i vari tipi fisici e di personalità). Per concludere, facemmo un flashmob a Casa Oz a Torino, a cui parteciparono anche alcuni ragazzi della neuropsichiatria del Regina Margherita, l’Ospedale Infantile del capoluogo piemontese, giovani con gravi problemi di accettazione di se stessi, anoressia, bulimia, ecc… Insomma un progetto complesso, faticoso, che però fece comprendere a tutti ciò che conta veramente: essere se stessi nel rispetto di alcune regole indispensabili per poter comunicare normalmente in tutti gli ambienti. Ho sempre creduto che ai bambini ed ai ragazzi si debba dire la verità, spiegare tutto, con i dovuti modi e le parole giuste, perché è l’unico modo perché essi interiorizzino ciò che si vuole insegnare. I ragazzi di oggi non sono più abituati a ricevere degli ordini nemmeno in famiglia e tocca quindi a noi recuperare una modalità di educazione più matura, meno impositiva e più condivisa. So già che questa mia posizione susciterà molte critiche da chi ha ricevuto un’educazione rigida, ma sono invece convinta che la vera educazione non sia l’atteggiamento di facciata di “far finta” di uniformarsi alle richieste, ma quella che fa comprendere e fa in modo che la persona creda veramente in ciò che sceglie.
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