A poche settimane dalla brutale uccisione di Daniela Neza,a Savona, sento nuovamente la necessità di intervenire, su questa pagina, con riferimento alla tragedia dell’uccisione di Giulia Tramontano e del figlio che portava in grembo, per mano del fidanzato, per sua stessa ammissione, in quanto “stressato dalla situazione che si era venuta a creare”, dopo la scoperta del suo tradimento con un’altra ragazza, anch’essa incinta.

Giulia, purtroppo, è l’ultima di una serie di donne in stato di gravidanza, uccise da conviventi, mariti,  ex conviventi o ex mariti, e se nominare vuole dire fare rivivere, le citerò una ad una, affinché la loro morte non sia avvenuta invano: Monica Ravizza (2003), Jennifer Zucconi (2006), Barbara Cicioni (2007),  Marilla Rodriguez Silva Martins (2014), Anastasia Sharukova (2017) e Irina Balcan (2017).

La vicenda di Giulia, come purtroppo tutti i casi di femminicidio, è stato oggetto, in questi giorni, di un’attenzione mediatica abnorme, che ancora una volta dimostra quanto ancora occorra lavorare affinché le vittime di questi orrendi reati non siano vittime d in un’attenzione morbosa e finalizzata a mero sensazionalismo, che le uccide nuovamente, dopo la morte fisica.

Tuttavia, chi come lo scrivente, ha il privilegio di potersi confrontare ogni giorno, su questi temi,  con giuriste, psicoterapeute, insegnanti, scrittrici e, in generarle, amiche impegnate, quotidianamente nel contrasto della violenza di genere, gode della possibilità di poter uscire, come Teseo, con l’aiuto di novelle Arianna del nostro tempo, da un labirinto insidioso di notizie, spesso mistificatorie e manipolatrici della realtà, altre volte  (più raramente) ben impostate e argomentate.

Il risultato di questo dialogo fecondo e di questo confronto quotidiano su questo fatto di cronaca gravissimo, sono queste brevi riflessioni, che di seguito svilupperò, sul femminicidio di Giulia Tramontano.

Dal confronto con le colleghe avvocate, sono emersi, in particolare, due profili: quello relativo all’efficacia dell’attuale legislazione e quello della necessità di andare oltre il mero dato giuridico.

In particolare, mi è stato evidenziato, e mi associo a tale considerazione, che noi avvocati dovremmo  valorizzare e tutelare l’ascolto e le problematiche rappresentateci dalle parti, andando oltre il mero dato tecnico giuridico. Il diritto, infatti, come insegna magistralmente il Prof. Paolo Cendon, da solo non può spiegare la realtà e non è sufficiente ad esaminare compitamente i fenomeni sociali, quale è quello del femminicidio.

In ogni caso, con riferimento al fenomeno dell’uccisione di donne in quanto donne, le norme giuridiche per il contrasto alla violenza  di genere ci sono, anche nel processo civile, a seguito della riforma “Cartabia” del 2022 e, di conseguenza, invocare nuove norme in relazione a questi reati non ha alcun senso che non sia quello di fa percepire ai cittadini un impegno su questi temi; impegno, però, mal indirizzato.

Inoltre, la riflessione si è spinta a considerare che spesso, l’analisi giuridica e sociologica sovrasti la mera pietas umana, che dovrebbe, invece, sovrintendere qualsiasi altra considerazione e che sia necessario agire, con forza sul piano educativo, tutti insieme, uomini e donne, uniti e non contrapposti. Infatti, come ha rilevato il prof. Vittorino Andreoli, su “La Stampa” del 3 giugno,  si preferisce investire in sicurezza, più che in educazione.

Da una disamina più approfondita di articoli e interviste su giornali e altri media, ho rilevato, che soprattutto i magistrati e le forze dell’ordine hanno evidenziato la necessità di non recarsi all’ultimo appuntamento “chiarificatore”, in quanto pericoloso. In questo senso, fa eccezione il dottor Fabio Roia, Presidente Vicario del Tribunale di Milano, con i colleghi Francesco Menditto e Paola di Nicola Travaglini, tra i massimi esperti di violenza di genere in Italia, il quale, nell’intervista al “Corriere della Sera” del 2 giugno sul femminicidio di Giulia Tramontano, ha esordito così: “Quando si parla di prevenire la violenza sulle donne si commette l’errore di pensare come aiutarle a difendersi. Ribaltiamo il messaggio: facciamo capire agli uomini che non devono aggredire e insultare le donne, che devono rispettare la loro autonomia, la bellezza della loro diversità e accettare la possibilità che i legami vengano interrotti anche in modo unilaterale”.

Le considerazioni del dottor Fabio Roia, che condivido pienamente, mi sono state proposte anche da  psicoterapeute e, più in generale, da molte amiche non giuriste, mentre nell’ambito giuridico e giudiziario, la tesi del dottor Roia, ad avviso dello scrivente, pare essere meno condivisa

Tuttavia, al fine di valutare la questione con maggiore precisione e  da ogni punto di vista, occorre dar conto della prospettiva, che mi è stata evidenziata da una stimata docente universitaria, che costituisce l’esatta rappresentazione del concetto  di difesa da possibili situazioni di rischio.

Detto concetto, non va inteso nel senso di far carico alle donne dell’onere di autoprotezione da abusi e violenze, da considerare la norma, in quanto gli uomini non compiono un determinato percorso, ma nel senso di liberarsi da determinati stereotipi di genere, relativi ad obblighi che possono quasi essere definiti “ di genere”, di comprensione, di assistenza e di chiarificazione necessaria (la c.d. “Sindrome della crocerossina”), senza lasciarsi coinvolgere in determinati tipi di rapporto,  che già dall’inizio evidenziano, immaturità dell’uomo e, quindi, possibili pericoli e situazioni di rischio per la vita  e per l’incolumità fisica.

Occorre, in sintesi, una profonda e importante educazione emotiva per uomini e donne, che consenta di vivere i rapporti interpersonali con maturità, autodeterminazione e autostima, senza ricadere in stereotipi femminili, speculari a quelli maschilisti.

Infine, il tema del linguaggio e della narrazione del femminicidio.

Ancora una volta, abbiamo assistito a sensazionalismo mediatico, del tutto fuori luogo e irrispettoso delle vittime di violenza, ad interviste e articoli stereotipati, a narrazioni “standardizzate” che hanno evidenziato la situazione di prostrazione emotiva dell’assassino, che non chiamerò per nome come fanno alcuni media, forse in quanto barman dei locali “chic” milanesi, sottoposto a stress emotivo, per colpa, ovviamente, della vittima.

Al riguardo, ritento utile e importante riportare il pensiero di una giurista – scrittrice, la dottoressa Maria Dell’Anno, autrice di due volumi importanti, che con ONDIF Savona, FIDAPA Savona, il CAV Artemisia Gentileschi di Albenga e con la prof.ssa Claudia Palone, ho avuto il piacere di presentare a Savona, lo scorso anno, in vista del 25 novembre, e precisamente “E’l modo ancor m’offende” e “Parole e pregiudizi. Il linguaggio del giornali italiani sul femminicidio”.

La Dottoressa Dell’Anno evidenzia,  in un articolo apparso il 2 giugno scorso, sulla pagina online “Noi Donne”, che non sono le donne a dover imparare a non andare all’ultimo appuntamento e che “E’ più comodo, è più facile dare la colpa alle donne, sempre alle donne, anche quando siamo  noi le vittime, perfino quando veniamo uccise. La colpa non è mai degli uomini (..)”.

Inoltre, la Dottoressa Dell’Anno evidenzia un profilo particolarmente interessante e rilevante, che non è stato evidenziato in nessun altro contesto: quello del cognome materno, in quanto “emblematico di quel potere patriarcale e di quel senso di proprietà che è proprio la causa dei femminicidi (…) Il doppio cognome non è cacofonico, è il riconoscimento della pari dignità sociale di donne e uomini, di madri e padri”.

Il pensiero della Dottoressa Dell’Anno è  perfettamente sovrapponibile a quello della Prof.ssa Emanuela Navarretta, Giudice della Corte Costituzionale, secondo la quale non seguire le indicazioni della Consulta sul doppio cognome, significa porsi al di fuori dei principi della Costituzione, ed in particolare dell’articolo 3.

Il linguaggio standardizzato dei giornali e degli altri mezzi di comunicazione  ha rappresentato il punto centrale della riflessione della Prof.ssa Claudia Palone, insegnante di lettere della città in cui vivo, Savona e molto attiva nell’ambito della formazione dei ragazzi alle tematiche della violenza e della parità di genere la quale, in un post pubblicato il 2 giugno scorso, sul social network “Facebook”, ha dato ancora maggior forza a quanto ha dichiarato il dottor Fabio Roia, al Corriere della Sera: “Leggo articoli e post a profusione sull’ennesimo femminicidio ed ogni volta mi avvilisco per le parole che vengono usate, la narrazione distorta e le soluzioni idiote. In certi momenti mi pare che tutto l’impegno profuso in classe sia paragonabile a  svuotare il mare con un secchio. E poi arriva lei, donna e giornalista, che scrive che dobbiamo insegnare alle ragazze a difendersi. Sono loro che non sanno difendersi abbastanza, colpa loro se non frequentano corsi di karate e non hanno lo spray in borsetta, no baby così non si esce, così sbagli! Forse, e dico forse, sarebbe meglio insegnare ai maschi che l’amore, come l’amicizia, può anche finire ma non per questo devono mettere fine anche alla vita delle compagne quando la storia finisce. Occorre imparare a ribaltare i termini della questione altrimenti non faremo alcun progresso ma continueremo a leggere e a piangere sulle prossime vittime”.

A conclusione di queste brevi note sull’ennesimo femminicidio, oltre che a ringraziare, nuovamente, chi ogni giorno mi supporta e mi guida nel labirinto di questo grave fenomeno sociale, che assume le fattezze di una tragedia senza fine, per la ragione evidenziata dalla prof.ssa Palone nel suo post, mi associo all’appello della Dottoressa Dell’anno, nell’articolo sopra citato e richiamo, da uomo, prima ancora che da avvocato,  l’importanza di un impegno congiunto, maschile e femminile, sul fronte della violenza di genere: “NO! Il mondo non va bene così! Ma solo noi possiamo cambiarlo, un minuscolo passo alla volta”