Tre anni fa, il 24 aprile del 2022, alla vigilia della festa della Liberazione, ci lasciava Benito Mazzi. Ancora pochi mesi e avrebbe compiuto 84 anni, gran parte passati a scrivere per giornali come Eco Risveglio ( del quale è stato per trent’anni direttore) e pubblicando decine di libri.Il primo vero romanzo di Benito Mazzi, La formica rossa, edito dalla libreria Leone di Stresa nel 1987, citava nel titolo la canzone che più di altre si era affermata come un vero e proprio cavallo di battaglia per chi suonava nelle osterie e nelle feste popolari di Vigezzo negli anni dell’immediato dopoguerra ( “E la furmìa rusa la rampia sù pal mùr, cun la camisa cùrta la mustra tùt ul cùl”). Un testo fresco, coinvolgente, ritmato come la canzone popolare: “…poi s’aggiustò la barbonica sulle ginocchia, regolò le cinghie e partì, sparato con La formica rossa, trascinando tutti nel canto all’infuori del Gianí che, per il casót, non ricordava più chi avesse fatto in prima mano cinque e uno sei e uno sette…”. La valle Vigezzo, la valle dei pittori con i suoi sette comuni che si distendono da Druogno a Re, è stata la patria di Benito Mazzi, il luogo dell’anima dove ha sempre raccolto dal vero e dalla vita di tutti i giorni gli spunti per le sue storie, dal Piano delle streghe a L’osteria dei Patrizi, da La valle del miracolo a La ragazza che aveva paura del temporale, Quando abbaiava la vole e Nel sole zingaro, solo per ricordare alcuni  titoli dei suoi innumerevoli lavori. Scriveva bene, Mazzi. E per decenni, libro dopo libro, ha inchiodato generazioni di lettori, pagine dopo pagine, a quelle storie di confine, su quell’altipiano stretto tra le montagne che svettano sul crinale della frontiera con la Svizzera. Ma La formica rossa é stata molto più di un romanzo: era in pratica la sua autobiografia fin dai tempi in cui abitava “di fronte all’osteria dei Patrizi, all’entrata di Re, sull’incrocio tra la strada della stazione e la rampa del Cicia”; è la storia collettiva di una comunità e delle sue tradizioni, della cultura montanara di una valle alpina, del paesaggio geografico e umano al quale dedica una sorta di atto d’amore utilizzandone il dialetto espressivo e colorito. Il suo atteggiamento nei confronti del mondo paesano e di provincia, come scrisse Giorgio Barberi Squarotti, “non è per nulla patetico e impietosito, né cede mai all’idealizzazione o alla celebrazione postuma”. E aggiunse: “Mazzi ha, nel narrare, un che di espressionistico, non soltanto nella lingua, così intrisa di forme e modismo dialettali, che tendono sempre a rendere con la massima incisività i caratteri specifici della gente che raffigura e di cui sono un carattere antropologico di fondo, non legato soltanto alla vita di paese, ma tale da coinvolgere tutto l’ambito della provincia che fa da sfondo al racconto”. Un’osservazione che trovò piena conferma qualche anno fa nel saggio di Andrea Raimondi intitolato ll multilinguismo degli scrittori piemontesi. Da Cesare Pavese a Benito Mazzi (Grossi editore, Domodossola 2018). Un testo importante che ha colmato un vuoto nella ricerca sull’originalità della letteratura piemontese del Novecento. Prendendo in esame buona parte della produzione letteraria piemontese e seguendo il filo logico della tendenza a mescolare differenti codici linguistici nello stesso testo letterario, tipica di una terra di confine come il Piemonte, veniva indagata l’influenza del dialetto nella lingua italiana da Pavese a Fenoglio, Primo Levi, la Ginzburg, Davide Lajolo e altri tra i quali appunto Benito Mazzi proprio con La formica rossa e Nel sole zingaro, con le sue storie di osterie e contrabbandieri. Buona parte della sua narrazione riporta alle vicende degli spazzacamini e dei piccoli rüsca dai volti anneriti dalla fuliggine , dei boscaioli e degli sfrosìni, dediti per lo più a un contrabbando di necessità con la bricolla in spalla, passando di qua e di là della linea di confine in perenne conflitto con le asperità dei monti e i controlli dei canarini della guardia di finanza. Quando nelle vallate alpine e nelle campagne imperava la miseria anche le volpi affamate si spingevano alle porte dei paesi e abbaiavano come cani. Era il tempo, per dirla con Mazzi, in cui “i più fortunati tra gli uomini avevano il posto in ferrovia, alla Vigezzina, o si seccavano i polmoni a oncia a oncia nei forni a Domodossola; agli altri non restava che dire sì ai mercanti di boschi e rompersi la schiena dietro le teleferiche e nei canaloni a inviar giù borre, con la socia della ranza ( cioè la morte,ndr) sempre lì pronta a tirargli lo sgambetto”. L’incidente mortale, per i boscaioli, era sempre in agguato e bastava una piccola disattenzione per rimetterci la pelle. “Chi aveva ancora energie da spendere – scriveva Mazzi – alla festa tagliava il fieno nei prati e di notte viaggiava di contrabbando coi canarini  dietro a soffiargli sul collo. A vangare, seminare e regolare la magra campagna provvedevano le donne. E anche alle bestie. Le donne e i vecchi. Con la rela che girava c’era poco da sfogliar verze”. Come dire che, con la fiacca che c’era in giro a quei tempi, non era proprio il caso d’essere ottimisti e occorreva stringere oltre alla cinghia anche i denti. La penna di Mazzi ha animato per decenni una incredibile folla di personaggi che irrompono nelle vicende narrate, con quel modo di parlare e di prendere la vita di tutti i giorni che affascina, coinvolge, fa pensare. In quessto suo lessico famigliare s’incontrano la maestra Lina, madre dell’autore, l’Albért -suo padre – e il fratello Lauro, insieme a quell’umanità varia del Cicia, l’Andre, il Luganiga, il Jepe, il Gianca, la Gianna, il Giampi, il Fede e tutti gli abitanti della vigezzina Re, il paese del Santuario della Madonna del sangue, dove sono ambientate La formica rossa e molte altre storie. Benito Mazzi è stato senza dubbio uno dei più importanti narratori e saggisti piemontesi ( e non solo) del dopoguerra. Non a caso ha pubblicato per le più importanti case editrici decine di libri ed è stato tradotto in diversi paesi europei e negli Usa. Il suo legame con la valle dov’era nato e dove ha sempre vissuto è stato il filo conduttore di gran parte delle sue storie, come nel caso di Fam, Füm, Frecc. Il grande romanzo degli spazzacamini, edito da Priuli & Verlucca, Vecchie storie di paese, La civiltà del legno in Val Vigezzo e tanti altri. Va ricordato anche come autore di alcuni libri sul ciclismo (Palmer, borraccia e via, Morello, la fugascìna e la febbre del Giro,Coppi, Bartali & Malabrocca,Kubler,Koblet,croci torti e pianezzi, L’aquila di Tappia al Giro d’Italia) molto belli e appassionanti. Ovviamenteil tempo dell’infanzia e dei ricordi, della formica rossa suonata nelle osterie e nelle balere, è passato lasciando una punta d’amaro anche in Mazzi quando rifletteva come ne fossero “passati di anni, eppure sembrava ieri il tempo delle elementari. Com’era mutato il paese! Da bocia mi vergognavo di chiamare mio padre in italiano, mi vergognavo del suo vestire in ordine, con cravatta e colletto inamidato; ora a vergognarsi era chi parlava in dialetto, chi indossava le braghe alla sbof di fustagno… La Svizzera coi suoi franchi aveva profondamente modificato uomini e cose. La gente, invece di godere assennatamente del nuovo benessere, non ne aveva mai a basta, s’affannava dietro qualcosa di indefinito, di irraggiungibile, era inquieta, fredda come le case, non avvertiva più il piacere, la necessità di stare unita come quando abbaiava la volpe”. E allora, non potendo rovesciare la clessidra e tornare indietro nel tempo, rileggendo La formica rossa si può almeno immaginare quel mondo, apprezzandone i valori che saranno stati anche semplici ma certamente sani e genuini. Così come quelli, più in sintonia con la passione più italica e diffusa in fatto di sport, che ha narrato ne Il Toro nell’anima. Emozioni e ricordi della provincia Granata. In quel libro Benito Mazzi ha voluto dedicare pagine importanti a una passione coinvolgente e popolare che, nel territorio più a nord del Piemonte, nell’Ossola e in Valle Vigezzo, ha scaldato il cuore a intere generazioni. Il libro pubblicato dalla sua casa editrice Il Rosso e il Blu ( diretta dalla figlia, Wally Mazzi) è perfettamente in linea con le sue narrazioni, raccontando “un Toro speciale, il Toro della provincia ossolana, vissuto in un groviglio sanguigno di passioni, di piccole avventure, di straordinaria quotidianità”. E’ quello di Valentino Mazzola, Ferrini e Meroni; il Toro di Pianelli, Radice, Pulici e Graziani ma è anche e forse soprattutto il Toro del Lauro, di Febo e di Nico; il Toro del Pace, di Lureenz e Rudi, di Giona e Paolino, del “grande Bonacini” del “terribile Ferro”. Personaggi come il Nico (al secolo Franco Nicolai), classe 1934, “l’unico di noi ad aver visto il Toro giocare al Filadelfia” perché a diciannove anni lavorava a Torino come imbianchino, oppure il “granatissimo di vecchia data” Lurèenz (Lorenzo Zamboni) che scoprì la squadra granata a undici anni, durante il campionato 1946-47, ascoltando la radio dell’Osteria Alpina a Toceno. Ci sono le abitudini scaramantiche di Febo che, a metà degli anni ’70, andava al Blitz, località montana sopra Craveggia per sentire la partita alla radio perché il posto “portava bene”; che dire, poi, di quel baffone con il numero sette dalle calze abbassate (“cul barbisùn..us ciàma Meròni”) che faceva impazzire gli avversari e mandava in visibilio la curva Maratona, in un turbinio di bandiere “dal colore sanguigno”? Può apparire forse un lavoro minore tra i tanti libri scritti da Mazzi ma sarebbe un errore sottovalutare il filo che lo lega a tutta la sua opera dove, di racconto in racconto, prende corpo l’immagine vera, partecipata e popolare di una passione che è anche molto di più di un fatto sportivo, quasi uno spaccato sociale di un mondo che si è stemperato dai tempi in cui Giovanni Arpino lo descriveva in quel famoso atto d’amore letterario come “russ cume el sang, fort cum el Barbera, vöj ricordete adess, me grand Türin”. Anche Mazzi iniziò a tifare per il Torino nel 1949, dopo la tragedia di Superga, quando aveva undici anni. Quella sciagura aerea troncò la vita e il sogno della squadra più forte di sempre, consegnandola intatta al ricordo e al mito come la formazione recitata a memoria, quasi fosse una poesia o un rosario da sgranare laicamente: Bacigalupo, Ballarin, Maroso, Grezar, Rigamonti, Castigliano, Menti, Loik, Gabetto, Mazzola, Ossola. Il libro, con i suoi trentanove capitoli ai quali l’autore aggiunse una piccola, doverosa appendice dedicata al Torino club di Premosello, “faro per l’Ossola granata”, corredato da belle immagini, rappresenta un altro palpito di quell’umanità montanara, dignitosissima e generosa, che lo scrittore vigezzino ha voluto omaggiare in ogni sua opera. Come scrisse a suo tempo con grande garbo  Edgardo Ferrari, indimenticabile cultore della storia di queste terre di confine “ogni libro di Benito Mazzi ha una sua trascinante attrattiva anche se, lo sappiamo,si tratta sempre di capitoli o di pagine di quell’unico e grande libro che gli sta a cuore,il libro della storia vera della sua Vigezzo”.

Marco Travaglini