Tra le personalità italiane più eminenti in campo artistico e culturale scomparse negli ultimi due anni (ricorderemo almeno Franco Battiato, Carla Fracci, Roberto Calasso, Lina Wertmuller, Piero Angela), andrà senz’altro annoverato Raffaele La Capria, nato a Napoli il 3 ottobre del 1922 e morto a Roma il 26 giugno del 2022 alle soglie dei cento anni. Scrittore tra i più raffinati e colti della sua generazione – oggetto di autorevole e unanime apprezzamento ma forse non così “popolare” presso il grande pubblico come un Moravia, un Soldati, un Bassani, un Chiara – saggista di cultura e di costume, autore di radiodrammi, sceneggiatore cinematografico (in specie per Francesco Rosi), collaborò parcamente a «Il Mondo» pannunziano (con due racconti nel ’58 e due articoli nel ’59 e nel ’60), più intensamente al «Corriere della Sera» e dal ’90 fu condirettore di «Nuovi Argomenti». Insignito dei premi più prestigiosi (lo Strega nel ’61, il Campiello alla carriera nel 2001, il Piero Chiara alla carriera nel 2002, il Viareggio nel 2005, l’Alabarda d’oro alla carriera nel 2011, il Brancati nel 2012), fu altresì traduttore di lavori teatrali di Sartre, Cocteau, Eliot. Riguardo la vita privata, La Capria fu marito di Ilaria Occhini, attrice teatrale e cinematografica tanto brava quanto bella, nipote di Giovanni Papini. Autore di una quarantina di libri (racconti, saggi letterari e di costume, pagine sulle arti figurative, resoconti di viaggi, testi autobiografici, favole), pubblicò solo tre romanzi: Un giorno d’impazienza (1952; nuova versione riscritta, 1976), in cui nella tematica amorosa si è potuto scorgere un’impronta ancora moraviana, laddove sul piano stilistico l’Autore affermò di essersi ispirato a Proust e a L’Étranger di Camus; Ferito a morte (1961), Premio Strega, che doveva consacrare il suo nome; Amore e Psiche (1973), premio Selezione Campiello. (Se è concesso un excursus personale, l’estensore di queste righe, componente nel 1973 della Giuria dei Trecento del Premio Campiello, era fortemente tentato di votare il romanzo di La Capria in cinquina per il riconoscimento assoluto, soprattutto come attestato di stima e segnalazione per l’insigne scrittore, ma scrupolo, onestà e rispetto della verità lo indussero in fine a pronunciarsi per il bellissimo romanzo Il trono di legno di Carlo Sgorlon, a cui in effetti andò meritatamente il primo premio). Ferito a morte non è soltanto il capolavoro di La Capria e un eccezionale esemplare generazionale di letteratura, ma si staglia come uno dei romanzi italiani più significativi dell’intero Novecento. «La narrazione è costituita dalle fantasticherie e dai ricordi affioranti alla memoria del protagonista durante la siesta pomeridiana di un giorno dell’estate 1954, resi con la tecnica del monologo trascorrente da un tempo all’altro. Vi si scopre il tentativo di pervenire ad un “realismo del dormiveglia”, che partendo dal momento lirico apparentemente aperto all’evasione riesca a mettere a nudo uomini e ambienti. L’argomento è la città – Napoli – “che si è messa fuori della storia” (siamo negli anni della amministrazione Lauro, definita come neo-borbonismo); essa viene descritta come la “Foresta Vergine” che “ti ferisce a morte o ti addormenta, o tutt’e due le cose insieme”. E di Napoli abbiamo davvero un’immagine nuova, lontano tanto da qualsiasi ombra di implicazione folcloristica quanto da ogni suggestione di rappresentazione di tipo realistico convenzionale, con tutti i rischi di compiacimento che essa può comportare. La condanna da parte di queste pagine per una certa società che per comodo o per egoismo rifiuta la storia è recisa e convincente, anche se l’unica forma di affrancamento che vi si indica è pur sempre quella della fuga»[1]. Ma preciserà La Capria: «È una critica della borghesia napoletana realizzata dall’interno, mostrando come parla e dunque com’è. […] Si tratta di una denuncia tutta implicita. Non ho mai voluto fare una denuncia ideologica. […] Gli scrittori devono sollevare denunce esistenziali, devono far esistere la denuncia nel racconto stesso che fanno. La letteratura non si esprime attraverso il discorso ideologico, ma con il discorso letterario. Questo non vuol dire che non si occupi di ideologia»[2]. Al di là del più o meno utile approccio ideologico, «romanzo perfetto, che racchiude nell’arco di pochi giorni il fulcro di un’esistenza, il capolavoro di La Capria è il libro definitivo sull’estate, sul mare, su Napoli e su Capri, sulla lotta tra la natura e la storia, sugli amori mancati, sul tempo che passa, sui sogni, sulle belle giornate e sul loro ricordo, sui ritorni e sui rimpianti, ed è soprattutto un capolavoro di stile, di suono, di musica della pagina, di voce»[3]. Per conseguire il suo straordinariamente geniale obbiettivo, La Capria, che dichiarò di essersi idealmente ispirato all’esperienza di William Faulkner, ricorre stilisticamente con orecchio appunto musicale a una grande libertà linguistica (già attuata su scala e con intenti completamente differenti da Gadda), con l’adozione, ad esempio, di dialettismi lessicali ma soprattutto di dialettismi sintattici giacché gli strumenti tecnici più frequenti a caratterizzare la prosa del romanzo sono un ampio ricorso alla proposizione nominale e la ricorrente «sfumatura» (C. Grassi) dei confini tra discorso diretto, discorso indiretto e discorso indiretto libero – si tenga sempre presente che il tessuto narrativo si fonda su monologhi interiori di taglio talvolta onirico. È anche per le innovative soluzioni espressive che Ferito a morte si è conquistato il posto altissimo nella letteratura italiana del secolo XX. La vasta opera letteraria di La Capria – dai racconti agli elzeviri alle pagine autobiografiche alla saggistica civile e storica o di argomento artistico concernente Napoli, la Campania e non solo – si colloca in ogni caso a livelli di non comune valore culturale e reclama una valutazione e un’attenzione che prescinda da Ferito a morte, affrontando con lucidità e intelligenza, con passione ma senza sentimentalismi, i temi e gli argomenti più ardui e scabrosi della condizione umana dalla prospettiva non solo italiana del secondo Novecento e dell’inizio degli anni Duemila. L’edizione nei “Meridiani” mondadoriani delle opere principali (2 volumi, 2015) è segno tangibile dell’autorevolezza dello scrittore napoletano, che non è l’autore di quel solo libro, seppure ineguagliabile, che gli ha conferito fama imperitura.
[1]Corrado GRASSI, Raffaele La Capria, in Corso di Storia della lingua italiana. Parte II: Lingua e dialetto nella letteratura italiana contemporanea (Italia meridionale e Roma), Giappichelli, Torino 1965, pp. 154-55.
[2]Raffaele LA CAPRIA, cit. in Federico SARDO, Perché Ferito a morte è il romanzo definitivo dell’estate italiana, «Esquire», 16/08/2021, p. 5, online.
[3]Federico SARDO, op. cit., p. 2.