A novant’anni dalla morte di Marcel Proust ( 18 novembre 1922 ), e oltre, piace segnare, prima del grandioso finale del Temps retrouvé, nel cuore della Recherche, La fuggitiva, titolo riadattato dagli editori de La Pléiade in luogo dell’autentico Albertine desparue. Dove il personaggio di Albertine Simonet è “figura” – tra l’altro – di Micòl Finzi Contini e ben prima – tragicamente prima – di Magrini Bassani Albertina, deportata in Germania da Ferrara nell’ottobre del 1943. Destinava Nino R. ( forse il cugino poeta di Bassani, Gianfranco “Nino” Rossi, 1931-2000 ) il volume proustiano con dedica: “A Giacomo Marchi / la corona dei giorni / Splendidi è infranta / pur se lucerna incanta il sentiero ai ritorni” ( cfr. il mio Bassani storicista e francesista ( per tacer d’altri ), in Tempo e Idee. Sapienza dei secoli e reinterpretazioni, Libertates, Milano 2015 ).
Il tragico; l’anticipo del distacco; il misterioso emblema dell’aquila effigiato sugli anelli di Albertine, metafora del destino; il “Leit-motiv Fortuny” che ambienta il soggiorno a Venezia del Narratore e traversa da un capo all’altro il precedente volume La Prisonnière; la splendida intermittenza dello scintillìo del sole nella camera di Proust e nel mondo che è un “immenso quadrante solare”; Venezia nell’angelo d’oro del campanile di San Marco e nella rievocata cittadina di Combray con la sua animazione domenicale; il gioco pluriprospettico di due o più realtà; l’insistente richiesta della baroness Putbus “se avesse mai conosciuto Abertine”; lo stesso ricordo della dura intimazione di Albertine al Narratore “Spostati che mi siedo sul letto”, intimazione vissuta come trafittura; la ricerca della “individualità irriducibile del vissuto”, al di sotto di meccanismi e interessi di vita sociale: – sono questi alcuni dei motivi ricorrenti nell’opera. Sì che, alla fine, il còmpito dell’io narrante si risolve come tragico abisso del “vivente originario”, profondità inesplorabile dell’io, soglia dell’ “ineffabile” ( come piacerà sottolineare a Giorgio Bassani, ascrivendola al proprio “idealismo” ).
Nelle bozze autobiografiche dirà Proust: “Il lavoro compiuto dal nostro orgoglio, dalla nostra passione, dal nostro spirito imitativo, dalla nostra intelligenza astratta, dalle nostre abitudini, quel lavoro l’arte lo distruggerà, ci ricondurrà indietro, ci farà tornare agli abissi profondi dove quel che è esistito realmente giace ignoto” ( v. gli appunti studiati da Kazuyoshi Yoshikawa, Remarques sur les trasformations subies par la ‘Recherche’ autour des années 19131914 d’aprés des cahiers inédits, in “Bullettin d’Informations Proustiennes”, n. 7, primavera 1978; e Mariolina Bongiovanni Bertini, Introduzione a La fuggitiva, trad. it., Torino 1978, pp. V-XV ).
Proust medesimo confida: “Albertine era stata per me soltanto un fascio di pensieri” ( p. 239 ). E richiamando il motivo dell’inconscio, nella dimora a Venezia: “Talvolta al crepuscolo, rientrando all’albergo, avvertivo che l’Albertine di un tempo, invisibile, era tuttavia chiusa in fondo a me stesso, come nei Piombi di una Venezia interiore, i cui cancelli arruginiti erano talora sospinti da qualche inatteso incidente, fino a schiudermi un’apertura su quel passato” ( p. 237 ). Ecco: i “Piombi della Venezia interiore”, come la cosa in sé ( Kant ); il vivente originario ( Schelling ), il regno delle madri ( Goethe ), l’inconscio o l’archetipo ( Freud e Jung ), l’ombra del mistero e il vitale ( Croce ), “Delta” ( Montale ), il “segreto interiore dell’essere” ( Gadda ), l’ineffabile e il non-detto ( Bassani ): tutto ciò sembra riportarci l’eco infinita della smagliante pagina proustiana, sotto la luce del “chiar di luna”, alla pagina 68 de Il dolore e l’oblìo, o nella lettera di Albertine al Narratore ( pp. IX e 55 ). “Solo la notte definitiva potrà cancellarla dalla mia anima”. Più tardi, Marco Ansaldo scriverà un articolo, La vera storia dei Finzi Contini, in “Repubblica” del 13 giugno 2008, riscontrando l’archivio nazista di Bad Arolsen, per il “Dossier Silvio Magrini”, nato a Ferrara l’8 gennaio 1881, “Padre Mosè – Madre Fausta Artom, deportato in Germania al Protocollo n. 59854”. Tale figura può ben essere la fonte d’ispirazione per il personaggio bassaniano di Ermanno Finzi Contini. E ci sono anche il cane Yor, la moglie Albertina Bassani, i figli Giuliana e Uberto ( domiciliati in via Borgo Leoni 76, in Ferrara ).
Ma chi era l’ “Albertina” bassaniana – ricalcata e riplasmata sulle impronte proustiane, fatte proprie come ragion di vita nell’intimo del nostro scrittore? – Bassani Albertina in Magrini, fu Leonello ( il padre era deceduto il 18 novembre 1908 ) e di Elisa Micheli, era nata a Ferrara il 1883; fu deportata al campo di Fossoli il 16 ottobre 1943; e di qui a Buchenwald, dove sarà sterminata con una “quindicina di miei parenti”, come dirà Bassani nel 1961, rispondendo – durante un convegno sull’antifascismo – a una lettera anonima denigratoria, che gli era stata indirizzata per pregiudizio ideologico ( cfr. la relazione di Alberto Cavaglion, alla Fondazione Bassani, dell’11 ottobre 2012 ).
Giorgio Bassani era figlio di Enrico ( 1885-1948 ), anche presidente della SPAL nel 1921-1924, a sua volta figio di Davide Bassani, ricco commerciante di stoffe, e di Jenny Hannau; e di Dora Minerbi ( figlia di Cesare Minerbi ed Emma Marchi, cattolica ). Anche per questo motivo, Giorgio pubblicò nel 1940 Una città di pianura, sotto lo pseudonimo di “Giacomo” ( nome del fratello della madre ) “Marchi”. Eugenio Montale scriverà, evocando con la fantasia storica, il personaggio di “Dora Markus”: “Distilla odio una fede feroce”. Ora, Giorgio Bassani lavora a un’alta opera di rifusione etica e lirica, almeno su due prospettive essenziali. L’ Albertine Simonet di Proust è vista come “prefigurazione” di quanto di tragico si adempirà nel destino di morte della Shoah ( leggi razziali, deportazione degli ebrei, Magrini Bassani Albertina inclusa ); e poi, ed insieme, sotto la specola della distanza, l’Albertine/Albertina è trasfigurata e universalizzata in Micòl Finzi Contini.
Per il primo aspetto: “La signorina Albertine se n’è andata !” ( pp. 3, 8-9 ). Lo stato d’animo è “simile a quello dei popoli che fanno preparare da una dimostrazione dei loro eserciti l’opera della loro diplomazia” ( alla p. 18, dove ovviamente si assiste a un postumo capovolgimento di intenti da parte del nazismo ). E, ancora, a proposito dei Guermantes, la famiglia facoltosa e corrotta, e del loro antisemitismo, faceva giuoco la notazione di Proust stesso: “Così un antisemita, nel momento stesso in cui lo ricolma con la propria affidabilità, sparla a un Ebreo degli Ebrei, in un modo generale che gli permette di ferire senz’essere grossolano” ( La fuggitiva, cit., pp. 168-169 e 174 ). Mentre, per il secondo momento, Albertine Simonet / Albertina Magrini rivive in Micòl Finzi Contini per il tema del “cuore” e del “tempo”. “E’ la vita che, a poco a poco, caso per caso, ci permette di notare come quel che è maggiormente importante per il nostro cuore, o per il nostro spirito, non ci sia insegnato dal ragionamento, ma da altri poteri” ( pp. 7-8 ).
In realtà: “Quando veniva l’ora, che una sola cosa desideravo: di avere la mamma in camera mia” ( p. 9 ). E: “Più che rivedere Albertine, volevo mettere fine all’angoscia fisica che il mio cuore non poteva più sopportare” ( p.14 ). “Come poco si sa di quel che abbiamo nel cuore !” ( p. 63: Leit-motiv che vive riportandoci al Manzoni e, per altri versi, al Mallarmé ).
Così, Proust cita i versi della Manon di Jules Michelet, nuova prefigurazione di Micòl: “ahimé l’uccello che fugge quella che crede la prigionia, /sovente la notte / volando disperato, torna a bussare ai vetri / – Manon, rispondi, unico amore dell’anima mia, / solo oggi ho conosciuto la bontà del tuo cuore” ( p. 38 ). Soprattutto, l’episodio del bacio mancato a Micòl a un passo dall’ultimo tempo del Giardino, è un topos ricorrente in Proust ( ne La prigioniera, ed. it., Torino 1978, pp. 110-111: ove, al momento della buona notte, si perecepiva “quell’angoscia e la sua trasposizione nel’amore”, aveva poetato Proust ). Ne “La scomparsa di Albertine” ( La fuggitiva, cit., pp. 337 sgg. ) si congiungono alla fine: “Smettetela o suono !” gridò Albertine vedendo che mi gettavo su di lei per baciarla” ( pp. 538-539 ), con il biglietto lasciato alla cameriera Françoise ( pp. 426-427 ) e il precedente narrato in Jean Santeuil. E in effetti – nota la Mariolina Bongiovanni Bertini – nei “Cahiers” la “scena del vano tentativo di baciare Albertine, analoga a una situazione del Jean Santeuil, ha in un primo tempo come protagonista una certa M.lle Floriot, poi una fanciulla di nome Maria, bruna, di tipo spagnuolo” ( cfr. la Introduzione di All’ombra delle fanciulle in fiore, Torino 1949 e 1978, p. XII ). Da parte sua, “Micòl è inconquistabile – dirà poi Ida Campeggiani – perché depositaria tanto del senso della vita quanto del senso della morte; per questo cita Bartleby, rivendicando la libertà cieca dell’ I prefer not to” ( cfr. il saggio Proust nell’opera di Bassani, “Chroniques italiennes”, 23, n. 2 del 2012 ).
Momento lirico centrale è dato, ancora una volta, dal Tempo. Qui, ne “Il dolore e l’oblìo”, Proust ha fatto proprio, per interposta e plurima voce, Mallarmé. “Ti ricordi ? E’ la poesia – scrive alla fine il Narratore ad Albertine scomparsa – che comincia con ‘Le vierge, le vivace et le bel aujourd’hui’.. Purtroppo, l’oggi non è più né vergine né bello. Ma chi, come te, sa di farne presto un domani sopportabile, è davvero insopportabile” ( p. 42 ). Ora, Bassani reinterpreta il già denso passo proustiano, accogliendo la critica del presente ( “non più vergine né bello” ) e del futuro ( il “domani”, pretenziosamente reputato “sopportabile” ma, proprio per questo, in effetti, “insopportabile” ). E fa dire, invece, a Micòl, che respinge il futuro umanitario, democratico e sociale di Giampi Malnate, preferendo soltanto “il caro, il dolce, il ‘pio’ passato”( v. il mio Il caro, il dolce, il ‘pio’ passato. Bassani e la memoria, Laterza, Bari 2010 ).
Ed alla fine, lo stesso Stephane Mallarmé, fratello spirituale di Baudelaire e Edgar Allan Poe, maestro di tutto il simbolismo europeo, viene conservato nel cuore di Proust, e di Bassani; e di Albertine o Albertina ( Micòl Finzi Contini ), per l’altra lirica dei Sonetti, M’introduire dans ton histoire, lirica “incomprensibile e allusiva al primo sguardo ma tristemente foriera di profezia”, densa di efficacia archetipale, che Albertine Simonet non capiva, ma che l’io narrante ( che è poi “l’umanità che dice: Io ricordo”, nella formulazione crociana del 1915-1917 ) ben sente e coglie come suo mònito perenne: “da quel fuoco fiammeggiare i regni sparsi / e morire la ruota purpurea dell’unico vespertino tra i miei carri” ( versione mia, a revisione dell’altra di Patrizia Valduga, negli Oscar Mondadori, Milano 2003 ).