Nel 1984, al Castello di Rivoli, sulla collina morenica che guarda Superga, veniva inaugurato il primo Museo d’Arte Contemporanea in Italia. Nato dal sogno di alcuni visionari, il museo si proponeva di raccontare gli sviluppi del presente culturale dell’epoca e di seguire, da quel momento in poi, l’evoluzione del pensiero e del gesto artistico, per raccontarla progressivamente al mondo. In quella meraviglia incompiuta del genio di Juvarra, si trattava di costruire un progetto in divenire, dinamicamente orientato al futuro, che avrebbe certamente richiesto risorse moltiplicate e un impegno organizzativo straordinario per raggiungere un obiettivo tanto ambizioso. Era un pensiero lungimirante, ma talmente audace da presentarsi piuttosto come una speranza, un’ipotesi, una scommessa o, addirittura, un’utopia.
Di utopia, infatti, parlarono con prudente diffidenza gli esperti, gli addetti ai lavori e gli amanti dell’arte. Su La Stampa del 19 dicembre 1984, descrivendo l’inaugurazione del giorno precedente, Marco Rosci scriveva: “Per ora si tratta di un’affascinante utopia, dirompente nel panorama italiano, pur con tutte le sue parzialità e squilibri: mettere in dialettico confronto strutture e spazi monumentali e storici… fra primo ‘600 ed estremo ‘700, in parte evocanti in embrione un colossale ‘sogno’ architettonico dello Juvarra, con alcuni aspetti e linee della sperimentazione strettamente contemporanea.”

UNA PRESTIGIOSA REALTÀ
In questi primi quarant’anni di intensa attività, il Museo del Castello, come affettuosamente lo chiamano i cittadini di Rivoli, non è stato semplicemente un istituto di conservazione dell’arte contemporanea, da tramandare alle future generazioni, ma un laboratorio di pensiero in continuo fermento, luogo di bellezza, di riflessione, di pensiero aperto verso il futuro. È perciò simbolicamente importante che la celebrazione del quarantennale, intitolata “OUVERTURE 2024”, evochi quella “OVERTURE 1984” fortemente voluta da Giovanni Ferrero, all’epoca assessore alla Cultura della Regione Piemonte, assistito dal grande dirigente Alberto Vaneli. Con essi, ricordiamo alcuni tra i protagonisti della storia del Museo. Ad esempio, l’architetto Bruno, che curò la restaurazione dell’edificio in modo non tradizionale, così da esaltare il contrasto fra la magnificenza del passato e l’arte contemporanea che avrebbe dovuto essere esposta in quelle sale. Tale compresenza fu fortemente voluta anche da Rudi Fuchs, direttore dal 1984 al 1990, che amava sottolineare lo straordinario fascino estetico del Castello, sopraelevato rispetto alla città e visibile anche da molto lontano. Riteneva valorizzanti gli stucchi e i decori originari, restaurati per quanto possibile, ma non coperti, e richiese l’esposizione delle opere alla luce naturale delle finestre, diversamente da come erano scelte le luci nella maggior parte dei musei.
Nel 1984 non c’era ancora una collezione permanente, ma è stata costruita nel tempo. A Fuchs successe Ida Gianelli, grande e illuminata esperta di arte contemporanea, capace di scegliere gli artisti su cui puntare per arricchire la collezione ed eccellente promotrice dell’immagine internazionale del Museo. Dopo di loro, ricordiamo Carolyn Christov-Bakargiev, Andrea Bellini e Beatrice Merz, che hanno saputo consolidare la fama del Museo come centro di ricerca e polo di attrazione per artisti di talento, al di là della notorietà conseguita. Tutti questi direttori hanno ulteriormente arricchito la collezione con acquisizioni di opere recenti, successive al 2000, di autori significativi per la storia dell’arte.

IL FUTURO DEL MUSEO
Francesco Manacorda, l’attuale direttore, ha maturato una ricca esperienza alla direzione della V-A-C Foundation di Mosca e alla Tate Liverpool, ed ha curato due edizioni di Artissima. Orgoglioso del sapiente percorso di chi l’ha preceduto nei primi quarant’anni e della ricchezza dell’attuale patrimonio del Museo, afferma che continuerà a rafforzarne l’immagine non soltanto all’estero, dove il Museo di Rivoli è assai apprezzato, ma anche in Italia. Continuerà nell’opera intrapresa da quando è stato nominato nel 2024. Poiché il Museo costituisce un servizio pubblico per la crescita culturale delle persone e della società, si propone di favorire un rapporto di affetto da parte dei cittadini verso tale istituzione, che dovrà stimolare la partecipazione del pubblico agli eventi espositivi e ampliare l’opera di educazione all’arte contemporanea. Manacorda ritiene che ogni museo debba essere un ponte fra l’arte, la cultura e i visitatori, un luogo attrattivo e da frequentare per individui e famiglie, un’agorà da vivere.
Soprattutto in momenti di crisi economica come quelli attuali, con poche risorse pubbliche, saranno importanti la collaborazione con tutte le altre realtà culturali, la sinergia fra i rispettivi direttori e il dialogo diretto tra artisti e curatori.

IL CASTELLO INCANTATO
Le celebrazioni del quarantennale prevedono, fra l’altro, il progetto “Il Castello incantato”, dedicato a bambini e ragazzi. Sono loro il pubblico del futuro, ed è importante che abbiano la possibilità di partecipare attivamente e da protagonisti a un percorso museale adatto ai “loro occhi, menti e cuori”. A loro sarà dedicato temporaneamente tutto il terzo piano del Museo, che trasformerà quelle sale “in una palestra pedagogica esperienziale e inclusiva”: un allestimento dove la narrazione delle opere sarà affidata a ragazzi fra i sei e i diciassette anni. Ciò sarà importante “per attivare la creatività, il pensiero critico, la collaborazione e la capacità di affrontare l’inatteso”, afferma Paola Zanini.

LA SCOMMESSA VINTA: L’UTOPIA POSSIBILE
La mostra di inaugurazione annoverava 70 maestri contemporanei. In quarant’anni, il Museo è riuscito ad aggregare una tale quantità di opere significative, a presentare autori così prestigiosi e a conseguire una tale fama, da diventare “un punto di riferimento internazionale”, come ama ricordare Manacorda.
Quella che nel 1984 si presentava come un’audace scommessa è stata vinta. E tanto brillantemente, che la possiamo definire attraverso il famoso ossimoro coniato da Olivetti (anch’egli un visionario, forse non a caso): “l’utopia possibile”.