In un saggio ormai famoso di Raffaele Donnarumma si dice più o meno che il romanzo [quando sia ben fatto] è più inclusivo nell’impianto, nella concezione e nell’articolazione del pensiero di un qualunque saggio storico. Da questa premessa Donnarumma trae conseguenze senz’altro interessanti ma che non è qui il caso di riproporre e tanto meno di analizzare. Sta di fatto che il romanziere, quando tratta di storia, ricostruisce ambienti, spazi di incontro e di vita, facendo disinvoltamente riferimento alle letture dell’epoca, agli spettacoli teatrali, alle canzoni, a volte arrivando a riproporre modi di dire che hanno il sapore di un’altra lingua, diversa da quella di oggi, Che è quanto accade nel romanzo di Giusy Sciacca D’amore e di rabbia recentemente pubblicato da Neri Pozza e ambientato nella Sicilia di circa cent’anni fa.

Da parte mia aggiungerei che gran parte dei romanzi cosiddetti storici della letteratura italiana, ma anche russa, inglese e francese sono in realtà storiografici, in quanto assumono ovvero, in alcuni casi, delineano, magari per cenni e sommariamente, una sorta di teoria storiografica utile a capire l’epoca in cui si svolge la vicenda narrata. L’esempio in questo senso più tipico è dato dal Gattopardo che non a caso segue nel tempo lo scarso successo dei Viceré di De Roberto e dei Vecchi e i giovani di Pirandello. È tutta la macchina narrativa del Gattopardo, che procede per quadri, a far sentire quale fosse la politica che portò all’unità d’Italia, implicitamente criticando la vulgata del patriottismo di stampo nazionale se non nazionalistico.

D’ amore e di rabbia di Giusy Sciacca si colloca in questo quadro culturale, dove il narratore è reso scaltro da un linguaggio cinematografico che dai tempi di Camerini si coniuga brillantemente con la letteratura, sapendo il regista tradurre visivamente le vie di Milano descritte da Manzoni nei Promessi sposi, l’abito di nozze di Lucia, le scene drammatiche della peste. Lo scrittore che va al cinema ed ha spesso esperienza di sceneggiatore, apprezza lo sforzo compiuto per decenni dal cinema italiano di rendere attendibile la trasposizione di un bel romanzo sullo schermo. Lo spettatore che mira a capire la storia, vede che un merletto o un corsetto da stringere in vita è elemento, a volte un po’ consunto, utile comunque a dire in che epoca ci troviamo, cioè come si viveva e come si pensava.

È naturale peraltro che a esplorare il mondo siciliano di circa cento anni fa non c’è solo una generica curiosità per la storia.

Il romanzo è un romanzo d’amore e di rabbia, come appunto annuncia il titolo. Consiste in uno studio della psicologia femminile che ci riporta all’epoca in cui la donna comincia a prendere coscienza del suo ruolo, se non nella società in cui vive, negli spazi della vita familiare. Nel rapporto col maschio – che sia marito, amante, fratello, fidanzato o padre poco importa – amore e rabbia si mescolano quanto più la donna si avverte prigioniera, privata di libertà invece concesse all’uomo. 

Siamo in Sicilia nel 1917, quando gli italiani sono impegnati a combattere quella che può direi la più cretina delle guerre mai combattute che non a caso ebbe un seguito nell’altra che si concluse nel 1945. Gli uomini combattono al fronte una guerra logorante e sanguinosa. Le donne a casa devono provvedere al pane per i figli. Ricadono sulle loro spalle responsabilità nuove a cui si fa fronte e la donna diventa putiara, cioè governa in assenza del marito la bottega da cui trae sostentamento la sua famiglia, albergatrice, perfino sindacalista. In questa nuova veste interviene la figura di un personaggio storico, Maria Giudice, che viene dal Nord a coordinare la protesta dei contadini siciliani contro i padroni che, per risparmiare, intendono destinare al pascolo le terre.

Lo studio della psicologia femminile, per come è condotto nel romanzo della Sciacca, spiega certe movenze – le chiamerei così – di una narrazione squisitamente al femminile che si notano quale aspetto dominante di D’amore e di rabbia. I passi sono misurati, la scelta dell’abito è studiata e il tutto dà più che un ritmo, una cadenza alla narrazione.

A pensarci attentamente tutto nasce da questo doppio, da questa delicata schizofrenia, storicamente appartenuta a quel mondo, incapace di rinunciare a una concezione della donna che oggi appare spietatamente datata, per quanto può apparire surreale anche a un uomo come me. A leggerlo con attenzione, il romanzo porta allo stravolgimento di quel mondo che fu, letterariamente, il mondo del dannunzianesimo.

Dal doppio allo sdoppiamento il passo è breve ma anche risolutivo ed è questo che autorizza a parlare di “delicata” schizofrenia, perché in un mondo dove tutti sono pazzi la follia perde l’aspetto allarmante di una patologia e chi in quel mondo deve vivere non può sottrarsi ai vincoli e alle dinamiche sociali che lo caratterizzano.

Lo sdoppiamento c’è nella figura enigmatica della protagonista che nella prima parte del romanzo si specchia più per cercare di mettere a nudo la propria anima che non per un qualche compiacimento narcisistico e comunque estetico.

 Sul piano psicologico – ma questa non è una novità, anche se tanti uomini possono restarne ancora oggi stupiti – c’è la consapevolezza, tanto radicata nella scrittrice da essere disinvoltamente taciuta, che per una donna l’esser bella costituisce di norma un problema. Ed è vero perché la donna non nasce bella, lo diventa nel tempo dell’adolescenza, e governare la bellezza, nella quale si fonda erroneamente, all’occhio del maschio, la femminilità, comporta non pochi problemi.

In questa sorta di delirio di tutta una società l’immaginazione, con cui si sorveglia ogni parola, ogni sospiro, ogni pausa della narrazione, è costantemente ridestata dai paesaggi urbani, dai luoghi che sono gabbia per l’uccello che canta cercando l’amore. Luoghi belli, tragici fino alla cattiveria dai falsamente accoglienti salotti catanesi, agli splendori di Siracusa, fino al palazzo baronale di Lentini centro, più che simbolo di un potere che sovrasta perfino chi dovrebbe saperlo esercitare. Nella seconda parte lo specchio è come andato in frantumi, forse perché l’amore s’è perso ed è rimasta la rabbia che si deve contenere. E allora, fin dove è possibile, la protagonista tenta di ricongiungere i pezzi, gioco che non sempre le riesce. E nel finale si assapora una qualche sconfitta, non priva peraltro di un filo di speranza.