Il saggio di Ludovico Fulci sul  Dialogo di Plotino e di Porfirio, arrivato da pochi mesi nelle librerie, si segnala facilmente per una buona dose di originalità oltre che per vari spunti che alimenteranno quasi certamente un corposo dibattito. La complessa figura del poeta di Recanati e il dialogo stesso, contenuto, com’è noto, nelle Operette morali,  sono analizzati costantemente sotto un triplice punto di vista, filosofico, letterario e storico, fino a pervenire a conclusioni assai  interessanti e spesso del tutto nuove che finiranno per intrigare il lettore il quale poi  vedrà magari la materia con occhi diversi. In cosa consistano queste novità sarà solo brevemente accennato senza entrare mai nei particolari per non togliere a chi legge il gusto della scoperta, pagina dopo pagina,  ed inoltre per il fatto che una recensione, nella sua necessaria brevità non deve annoiare, evitando di riferire puntualmente quel che solo la conoscenza diretta del testo può suggerire al lettore. In primo luogo il saggista nota come la figura di Leopardi, dall’Unità in poi, se non già da prima,  sia stata sempre vista in modo funzionale a quelli che il Ministero avrebbe considerato essere gli obiettivi fondanti del sistema scolastico italiano e cioè la trasmissione acritica di un sapere codificato che perpetuasse lo status quo della società senza scossoni e senza cambiamenti radicali. In altre parole ci si adoperò “più a istruire  professori e studenti, che non a formare i professori che dovessero poi, in linea con un progetto che può attribuirsi proprio a Leopardi, formare i giovani allo studio e alle responsabilità che conseguono alla scelta di un lavoro intellettuale”. L’opera leopardiana è invece intrisa di un forte senso morale, di un forte senso civico perché “tutto ha una morale, perché tutta la nostra vita è frutto di impegno o di una mancanza di impegno” . E’ l’ironia lo strumento di cui si serve  il poeta, soprattutto nelle Operette morali (di cui Fulci ha curato nel 2011 un’edizione commentata per la Armando di Roma),  per scardinare le convenzioni, la moda, il perbenismo, i luoghi comuni, l’ovvietà, “tutto sul filo dell’ironia che non s’è voluta cogliere”, come sostiene lo studioso, consapevole di toccare un tasto a cui si è mostrata particolarmente sensibile la critica leopardiana degli ultimi decenni. Ci troviamo perciò di fronte a una lettura diversa, originale sia della poesia che della prosa del grande recanatese che finalmente viene liberato dalle incrostazioni che una visione politica strumentale ha voluto cucirgli addosso, ivi compresa la famigerata leggenda del pessimismo, che stona con l’operosità di uno scrittore tra i più incisivi della nostra letteratura e che infaticabilmente lavora nonostante la salute glielo proibisca. Un altro luogo comune che Fulci va a sfatare è quello della mancanza di un sistema filosofico originale. Il saggista nota che vi è una asistematicità  solo apparente nel pensiero leopardiano ma ciò deriva soprattutto dal fatto che il poeta non ha presentato le sue idee in modo organico in un trattato ma le ha disseminate qua e là nelle Operette morali e nello Zibaldone come fossero in un perenne laboratorio,  in una sorta di work in progress. Nel saggio l’autore coglie la vicinanza della riflessione filosofica leopardiana non solo a quella di Schopenhauer ma anche a quella di Kirkegaard e soprattutto  di Kant visto  come un vero e proprio precursore del poeta marchigiano, per quanto riguarda l’esigenza, espressa chiaramente nella Critica della ragion pratica, di vedere come dietro a tanti problemi “morali” ci siano nodi esistenziali che vanno risolti. Non a caso, per quanto concerne in modo specifico l’analisi del Dialogo di Plotino e di Porfirio, Fulci nota come il tema principale non sia  quello del suicidio, come potrebbe apparire a prima vista, bensì quello dell’angoscia esistenziale, del taedium vitae. Questo argomento  è stato affrontato a più riprese da Leopardi e segnatamente nel Canto notturno di un pastore errante dell’Asia di cui vengono riportati opportunamente nel testo parecchi versi.  Le riflessioni del pastore e  le domande che lui rivolge al suo gregge sono quelle di Leopardi stesso ed in ultima analisi  di ogni uomo che ha sperimentato il tedio nel corso della sua vita. E’ proprio nel Dialogo, dove questa tematica è  affrontata in modo dettagliato attraverso le parole dei due amici filosofi,  che si ritrova in modo compiuto il pensiero leopardiano circa la morte, la vita, la natura, l’incertezza dell’umano destino, la storia, la filosofia, l’amicizia. Questo permette a Fulci  di analizzare  a tutto tondo la figura del poeta recanatese. La scelta dunque non è affatto casuale ma funzionale al discorso che il saggista vuole portare avanti e che trova, pur nella brevità del testo,  un terreno assai fertile per essere  il Dialogo di Plotino e di Porfirio una sorta di summa di tutto il mondo di Leopardi e non solo del suo pensiero. Il lettore ha sin qui erroneamente considerato che il lavoro intellettuale in Leopardi è stato otium, rifugio in un mondo  asettico e lieve,  laddove è stato piuttosto, nota Fulci, negotium vale a dire rigore morale, metodo, disciplina, insomma un vero e proprio lavoro come del resto in tanti filosofi dell’Ottocento che si posero sul percorso tracciato da Kant. Che sia esattamente così viene ampiamente dimostrato dalle parole di Plotino e di Porfirio che non dibattono principi astratti ma si rifanno continuamente alla vita e ai suoi molteplici casi per trovare una soluzione e per allontanare lo spettro del suicidio comparso nella mente di Porfirio che alla fine viene ricondotto alla realtà proprio dagli stringenti ragionamenti dell’amico Plotino. Filosofia dunque non meramente consolatrice ma spinta alla vita, proprio perché siamo nati per vivere. Filosofia con un alto senso civico, sociale perché propugna la solidarietà tra gli amici e la condivisione dei mali del mondo che così risultano essere più leggeri e più sopportabili e meritevoli d’essere indagati per meglio comprendere l’uomo. “Viviamo, Porfirio mio, e confortiamoci insieme”. … “E quando la morte verrà, allora non ci dorremo e anche in quest’ultimo tempo gli amici e i compagni ci conforteranno”. Con queste parole di Plotino- Leopardi,  di cui possiamo ritrovare un’eco  in  alcuni versi de “La ginestra”, è lecito ancora  parlare di pessimismo leopardiano? Per concludere, mi preme sottolineare  che un paragrafo è dedicato alla lingua di Leopardi, che Fulci contestualizza benissimo e che si caratterizza per essere una lingua dotta e pronta a recepire alcuni prestiti dal francese, dal latino e dal greco. In ogni caso il saggista sottolinea in primo luogo la chiarezza, la simmetria, la schematicità del periodare leopardiano in un momento storico in cui l’italiano scritto incontrava ancora grosse difficoltà e veniva avvertito quasi come una lingua “letteraria” incapace di parlare disinvoltamente della realtà, prima che la riforma manzoniana risolvesse in parte alcuni problemi. Nell’uso della punteggiatura Leopardi si rifà alla prosa dei filosofi in vigore  in Italia, in Francia e in Inghilterra e quindi usa la virgola talora in modo  inappropriato ma in questo campo la messaggistica e la scrittura online in genere hanno ormai da tempo eliminato ogni sorta di regola e di certezza…