Qual è stato il destino della poesia che venne chiamata pura, assoluta, tendenzialmente autoreferenziale e dunque assai spesso criptica, indecifrabile per vocazione; la poesia inaugurata da Stéphane Mallarmé, proseguita in parte col Parnasse e poi diramatasi (fra l’altro) nell’Ermetismo italiano? Ebbene, gli ulteriori sviluppi di quella concezione poetica, i quali giungono fino ad oggi, hanno via via irrigidito i propri canoni, sicché dalla metà circa del Novecento si è assistito non tanto a un suo rinnovamento quanto piuttosto a una scarnificazione, una sorta di nichilismo della parola in versi che a ben vedere era già presente, seppure in forma germinale, difeso e occultato dalla sfavillante struttura metrica e dallo zampillio delle metafore, nella poesia del padre fondatore.

I poeti che hanno percorso questa strada, soprattutto in Europa, passandosi l’un l’altro come testimone l’oscura fiaccola di un tal modo di comporre versi, sono noti e non occorre certo rifarne l’elenco. Tenterei qui invece un parallelismo fra pittura e poesia. Se nell’arte astratta le immagini rinunciano a definire figure umane, oggetti o paesaggi, nella poesia assoluta dell’ultimo mezzo secolo si registra la rimozione sistematica del nesso tradizionale (vitale?) che definisco – non avendo a disposizione un termine più idoneo – come consecutio fra parola e oggetto, pensiero e discorso. Si tratta di un naufragio deliberato che mina la rappresentatività di ciò dicono i versi, fino alla messa al bando, nei casi estremi, delle regole sintattiche, di fronte al sorgere di una poesia destinata a girare a vuoto come una trottola, priva di qualsiasi meta che non sia il suo vorticoso errare. Ecco, la poesia “pura”, “assoluta”, da Celan ad Antonio Porta e oltre, è forse allora lecito chiamarla astratta, poiché essa tende ad astrarsi dalla volontà di comunicazione in maniera simile a quanto avviene nell’astrattismo pittorico riguardo alle forme umane e naturali.

Fra gli eredi attuali di questa complessa vicenda letteraria si colloca a pieno titolo Lorenzo Morandotti, che ha raccolto nelle tre sezioni di Nero Euridice (LietoColle 2019) il meglio della sua produzione poetica. Sono testi per lo più brevi, la cui efficacia è rintracciabile principalmente, come avviene nei suoi recenti maestri, al di là e al di sopra di quanto compete indagare all’ermeneuta d’antan. Come il diavolo, l’efficacia risiede qui nei dettagli. Andiamo così incontro a improvvisi e inattesi stupori, veniamo disorientati, all’attenzione di chi legge non è mai concessa la minima tregua. E tutto ciò avviene, occorre aggiungere, anche attraverso una buona dose di ironia, di cui Morandotti aveva già dato convincenti prove anni addietro in un libro di aforismi di rara profondità (Crani e topi, ES 2014).

Si consideri ad esempio una poesia come Abitare: in essa, le allusioni a un legame amoroso (per quanto incomba il «gelo» del terzo verso) si rastremano nel gioco di parole istituito dall’omofonìa tra anni e animi: «La tua pelle come docile divano / nella casa modesta è unica e muta / sillaba quieta nel suo gelo / contrada che unisce vita e morte / maestro perfetto negli animi a venire». Sempre dalla seconda sezione del libro, ecco un io frantumato in una manciata di schegge impazzite, cui sembra riferirsi La mossa degli esclusi, intento a crogiolarsi nella sua ebbrezza sepolcrale: «Si rincorrono le settimane / nelle ore silenziose dopo la morte / ho una bocca di riserva / sono cieco ogni giorno / ma non c’è pensiero / né meraviglia / la pelle crollerà / al momento del disgelo / lo scaffale generoso / la calotta per il battesimo». Anche il simulacro della “pelle”, che abbiamo incontrato nella poesia precedente, non può dunque far altro che dissolversi… Il «nero», che nella poesia dell’espressionista Trakl era simbolo di disfacimento, rovina, perdizione, Morandotti lo accoppia alla ninfa Euridice. Poiché nessun Orfeo verrà sulle sue tracce; poiché, come leggiamo in Autunno in due versioni, «sei assente nell’orto lunare / nel cielo nero dell’arcobaleno».