Ho già espresso su questa rivista il mio netto giudizio negativo sul libro “I maestri del liberalismo nell’Italia repubblicana“ di Giuseppe Bedeschi (ed. Rubbettino) nell’articolo del 1 febbraio 2021 dal titolo “Ma Pannunzio non può essere trascurato“. Non ho cambiato idea, leggendo la pur lucida recensione di Dino Cofrancesco. Ho letto la critica che ne ha scritto Gianfranco Pasquino che contesta a Bedeschi di non aver esplicitato i criteri in base ai quali ha scelto i maestri del liberalismo di cui scrive. Un’obiezione che rivela il limite del tutto soggettivo del libro in discussione. Ma Pasquino va oltre, contestando a Bedeschi di inserire nel Pantheon del liberalismo il suo maestro Lucio Colletti. Infatti, come scrive Cofrancesco, “per Pasquino non ha nessuna rilevanza teorica e culturale l’ultima produzione intellettuale di Lucio Colletti“. Colletti ebbe molte stagioni nell’evolversi del suo pensiero, passando dal giovanile liberalismo crociano, all’azionismo, dal marxismo più ortodosso al distacco dal marxismo che dichiarò in una famosa intervista del 1974, per poi finire come sostenitore e deputato nel 1996 di “Forza Italia”, seguendo l’amico Marcello Pera e Piero Melograni, i famosi professori berlusconiani che non vennero affatto valorizzati da un centro -destra poco incline a dar spazio alla cultura.
Colletti ha il merito di aver proclamato il tramonto delle ideologie presuntuose del Novecento nel suo libro – intervista del 1981, in cui ebbe il coraggio di denunciare la crisi delle ideologie e le esasperazioni oniriche del ‘68 finite nella bolgia infernale del terrorismo . Quel libro lo lessi, lo rilessi, lo presentai e lo recensii con entusiasmo. Leggere che un ex marxista come lui che era stato firmatario dell’infame manifesto contro il commissario Calabresi che armò la mano ai suoi assassini, prendeva una posizione molto netta e precisa sul ‘68 a cui ancora studente mi ero opposto con fermezza insieme ad alcuni miei maestri come Venturi e Garosci, fu per me di grande conforto . Voleva dire che il sentiero solitario imboccato dal Centro Pannunzio non era sbagliato, ma si rivelava giusto. I fanatismi ideologici non erano accettabili, come aveva già scritto nel suo “Atlante ideologico“ Alberto Ronchey grande giornalista ma anche e soprattutto grande e rigoroso studioso con orizzonti davvero internazionali. Ho letto quasi tutto del Colletti dell’ultima stagione, partendo dalla sua conversione al PSI di Craxi. Secondo Cofrancesco quello di Colletti fu un ”liberalismo pessimista e pensoso che recupera l’idea del peccato originale, l’unico dogma cristiano che un laico possa condividere, che implica, usando la terminologia kantiana, la radicale malvagità dell’uomo” e “ porta con sé la necessità di guardarsi dal potere, di porre ad esso dei limiti. Perché il potere corrompe chiunque lo detenga, credente o non credente, buono o cattivo che sia”. Questa della limitazione del potere dello Stato sull’individuo è una concezione squisitamente liberale a cui Colletti era tornato dopo la circumnavigazione dell’intero continente delle idee. Ha ragione Cofrancesco a difendere il liberalismo dell’ultimo Colletti ,ma ha anche ragione Pasquino nell’evidenziare la scarsa rilevanza della sua opera. Costanzo Preve, il marxista eretico che non si lasciava condizionare dai pregiudizi, parlò della sterilità del Colletti dell’ultimo periodo , pur scrivendo che non era affatto scandalizzato della sua scelta berlusconiana. Ho conosciuto Colletti e ho parlato con lui una sola volta e mi è rimasta in mente la sua vis polemica coraggiosa che sapeva essere lucida e pungente . Non va dimenticato che l’abbandono della chiesa marxista costrinse Colletti ad andare ad insegnare in Svizzera perché contestato con violenza dagli estremisti alla Sapienza di Roma ,un qualcosa di simile a quello che capitò a Renzo De Felice. Personalmente sono convinto che Colletti, più che fare il deputato ,avrebbe dovuto scrivere un manifesto di idee capace di trasformare il partito di plastica berlusconiano in un qualcosa di più solido. Invece quel partito fini ‘ di perdere tutti i professori e di restare un partito personale, se non aziendale, destinato a finire con il suo fondatore. Colletti avrebbe avuto sicuramente la capacità intellettuale di ridisegnare un moderno liberalismo che andasse oltre l’utopia del liberalismo di massa e degli slogan semplicistici di una Rivoluzione liberale mai tentata che prendeva il nome da un liberale molto atipico come Piero Gobetti che con quelle due parole intendeva tutt’altra cosa. Non c’è da stupirsi che Colletti ,mantenendo la sua autonomia critica, sia andato con Berlusconi, c’è invece da rilevare che non abbia dato un contributo originale al pensiero liberale. A Pasquino verrebbe voglia di domandare se Colletti avesse dovuto seguire il suo esempio, facendosi eleggere come indipendente di sinistra. Ma sarebbe una mera provocazione dalla quale è bene astenersi.