Sotto diversi punti di vista è del tutto legittimo avere grosse perplessità sul fatto che ci sia bisogno di filosofi e di filosofia in un tempo di emergenza sanitaria e di isolamento sociale forzato come quello che stiamo vivendo in queste settimane sotto la minaccia del Coronavirus.
Oggi chiunque a comprende che c’è un grande bisogno di medici, di inferimieri e personale sanitario, persone straordinarie che stanno profondendo energie immense per la salute dei pazienti colpiti dal virus. E certamente abbiamo bisogno anche di esperti di statistica, di matematici capaci di disegnare e interpretare i numeri e le proporzioni del contagio, a prevederne l’evoluzione. Abbiamo bisogno di economisti per affrontare e conseguenze della crisi , di politici lungimiranti e coraggiosi, di bravi giornalisti che ci informino correttamente senza infonderci troppa ansia. Abbiamo bisogno anche di psicologi e pedagogisti, che aiutino noi e i nostri figli a reggere lo stress di queste giornate in isolamento. Abbiamo bisogno di informatici per mantenerci in contatto almeno nel mondo virtuale. E certamente abbiamo bisogno di quelle persone coraggiose che lavorano nei negozi e nei supermercati esponendosi a rischi continui di contagio, e di forze dell’ordine che facciano rispettare le disposizioni di legge. Ma a cosa mai potrebbero servire i filosofi in questo momento? La filosofia potrebbe forse candidarsi ad essere la regina dell’insignificanza.
È stato dunque per me inevitabile domandarmi se la filosofia può aiutarci a gestire questo tempo della apprensione e della quarantena, se può aiutarci a riscoprire un tempo diverso e un diverso rapporto con noi stessi e con gli altri in questa condizione eccezionale. Ha senso che la filosofia sia praticata, discussa e anche diffusa in un momento così così drammatico? La mia risposta, alla fine, è stata positiva. Secondo me ci sono almeno tre aspetti che rendono la filosofia estremamente utile e importante in questo momento. In quanto segue, vorrei soffermarmi brevemente sui due aspetti e un poco più lungamente su un terzo.
La filosofia scuola di spirito critico
Un primo aspetto riguarda l’essenza della filosofia come amore per il sapere amore, amore per la saggezza. Se si mantiene fedele a questa sua essenza, la filosofia può aiutarci a sviluppare il nostro spirito critico, che è è un vaccino irrinunciabile ai nostri tempi. Lo spirito critico può aiutarci a difendere un grande valore oggi minacciato: il valore della democrazia. In un tempo di fake news, nel quale non è per niente facile distinguere tra la verità e la falsità di fronte al bombardamento di notizie spesso parziali e di parte, ragionare, imparare a distinguere il vero dal falso è importantissimo e cruciale. Inoltre, in un tempo come questo è molto forte la tentazione di affidare la nostra libertà a qualche leader carismatico in grado di risolvere i nostri problemi: il grande economista, il grande arruffapopolo che ci propone soluzioni semplici e miracolose a colpi di slogan e frasi fatte.
Di fronte a chi cerca di ingannarci proponendo soluzioni facili a problemi complessi, la filosofia può e deve proteggerci come un indispensabile antidoto. In questi tempi la filosofia ci deve ripetere la risposta di Kant alla domanda Che cos’è l’Illuminismo? Kant diceva che l’Illuminismo è l’uscita dell’uomo dallo Stato di minorità di cui egli stesso è colpevole. E aggiungeva: “Minorità è l’incapacità di servirsi della propria intelligenza senza la guida di un altro. Colpevole è questa minorità se la sua causa non dipende da un difetto di intelligenza, ma dalla mancanza di decisione e del coraggio di servirsi di essa, senza essere giudati da un altro”. E concludeva: “Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza! Questo è il motto dell’Illuminismo”. La filosofia può aiutarci a trovare il coraggio di servirci della nostra intelligenza per trovare, cercandole con gli altri, le soluzioni ai problemi, che sono sempre soluzioni complesse e hanno bisogno di un grande sforzo di ragionamento, di confronto e di capacità critica.
La filosofia come il proprio tempo appreso col pensiero
In secondo luogo, la filosofia può e deve aiutarci a comprendere e interpretare con attenzione e lucidità le sfide che questo tempo presente ci mette davanti. Sentiamo spesso ripetere che nulla sarà più come prima, dopo questa pandemia. Dunque, quando l’emergenza sanitaria sarà finita o almeno sotto controllo, ci troveremo di fronte a delle grandi scelte, che riguardano noi tutti come cittadini e membri della grande comunità umana. Quale mondo vogliamo costruire? Quali valori vogliamo mettere al primo posto?
Queste domande sono ineludibili: alcune settimane fa la rivista The Economist ha pubblicato un editoriale dal titolo The Truce Calcolus¸ Il truce calcolo, nel quale vengono proposte alcune di queste domande cruciali. Ad esempio: cosa scegliere tra la chiusura delle città e il il blocco delle attività produttive da una parte e il tentativo di salvare il maggior numero di vite dall’altra? Preferiamo il tracciamento dei nostri comportamenti mediante app, e dunque una sorta di controllo sociale o siamo in grado di assumerci il rischio della responsabilità e della limitazione volontaria della nostra libertà per salvare le vite delle persone più fragili? Cosa vogliamo scegliere tra l’isolamento nazionalista e la solidarietà globale?
Per dare risposte serie e non retoriche a queste domande fondamentali, per dare risposte razionali e praticabili e non accontentarci di vuoti slogan che sentiamo ripetere alla TV, serve l’uso pubblico della ragione, serve cioè la filosofia. Certamente a nulla serve una filosofia astratta, puramente accademica: serve invece una filosofia che sia, come diceva Hegel, Il proprio tempo appreso col pensiero. Serve il confronto basato su argomentazioni razionali e controllabili, serve il rispetto dell’opinione degli altri, serve la capacità di confrontare prospettive diverse, considerare gli argomenti e i contro argomenti e alla fine pesarli e fare delle scelte. Ma queste scelte debbono nascere da un confronto e da una stima anche per chi sostiene tesi diverse dalle nostre; la filosofia deve anche insegnarci a non pensare di avere sempre solo noi la soluzione a tutti i problemi. Abbiamo bisogno del confronto razionale, del dialogo approfondito: essi sono requisiti importanti per salvare la democrazia e rispondere in modo efficace alle sfide del nostro tempo.
La filosofia come maestra di vita
Infine, la filosofia può darci un altro tipo di aiuto in questo tempo di paura, isolamento e solitudine. La filosofia può aiutarci a sfruttare questi giorni per fare qualcosa che tendenzialmente non facciamo nella corsa della nostra vita quotidiana: rientrare in noi stessi e riflettere con calma e con profondità sulla nostra condizione di esseri umani.
Questa non è una riflessione oziosa e sciocca, nè tantomeno un lusso inutile: è invece qualcosa di assolutamente necessario. Per fare questo, credo che ci possano aiutare I filosofi del passato e farò brevemente riferimento a due autori che non sono filosofi sistematici, non sono interessati alla lotta per il convincimento e alla speculazione astratta, ma riflettono sulla condizione umana. Mi riferisco a due autori molto diversi tra di loro, vissuti in periodi storici molto lontani. Uno è Lucio Anneo Seneca, morto nel 65 dopo Cristo, l’altro è Blaise Pascal, filosofo, matematico e scienziato del diciassettesimo secolo. Leggendo alcuni loro scritti, mi propongo di mostrare come la filosofia può aiutarci a fare questo cammino dentro noi stessi, dentro le profondità del nostro io.
Parto da questo pensiero di Pascal, tratto dai suoi Pensieri, che sembra scritto per il nostro tempo: “Quando mi son messo a considerare le varie agitazioni degli uomini e i pericoli e le pene cui si espongono nella corte, in guerra, e donde nascono tante liti, passioni, imprese audaci e spesso sconsiderate…, ho scoperto che tutta l’infelicità degli uomini deriva da una sola causa: dal non sapersene restare tranquilli in casa propria, in una camera. Un uomo che possieda tanto da vivere, se sapesse starsene con piacere a casa propria, non se ne allontanerebbe per andare sul mare o all’assedio di una piazzaforte. Si compera a caro prezzo un grado nell’esercito soltanto perchè riuscirebbe insopportabile non muoversi dalla città; e si cercano le conversazioni e lo svago dei giochi soltanto perchè non si può rimanere a casa propria con piacere”[1].
Questo testo, come detto, è di una attualità sorprendente. Anche noi oggi facciamo fatica a stare in casa nostra, a rispettare le regole della quarantena, regole che sono fondamentali in quanto rappresentano la principale difesa contro l’estensione del contagio. Per quale ragione facciamo fatica a restare da soli? Pascal fa l’esempio di un Re, che sembra la persona più felice del mondo, circondato da servitori che obbediscono a tutti i suoi comandi e sono pronti a farlo divertire, a occupare il suo tempo e la sua mente con innumerevoli attività e distrazioni. Intorno a lui, tutti sono indaffarati a distrarlo, ad offrirgli un continuo divertissement, come lo chiama Pascal, a fargli volgere lo sguardo altrove, altrove dal silenzio e dalla solitudine. Perchè persino l’uomo più felice del mondo deve essere continuamente occupato e distratto? Perché, se per un attimo il Re rimanesse da solo e in qualche modo fosse portato a riflettere sulla sua condizione, scoprirebbe subito la propria profonda infelicità.
Questo accade anche a noi: dobbiamo essere continuamente occupati, distrarci, fare tante cose, avere un’agenda carica di appuntamenti perché, quando ci fermiamo a riflettere su noi stessi, noi vediamo con chiarezza quella che Pascal chiama la miseria umana, costitutiva della nostra condizione. E aggiunge: “Ecco perchè agli uomini piace tanto il chiasso e il trambusto; e la prigione è una pena così orribile e il piacere della solitudine riesce incomprensibile. E, infine, perchè quel che rende particolarmente sventurata la condizione dei Re è che tutti si studiano senza posa di distrarli e di procurare loro ogni sorta di piaceri. Il Re è attorniato da persone che pensano soltanto a distrarlo e a impedirgli di pensare a lui stesso: giacché, per quanto Re, se ci pensa, è infelice. Ecco tutto quello che gli uomini hanno saputo inventare per vivere felici”[2]. Ecco perchè restare in casa, restare isolati, è difficile: quando restiamo soli con noi stessi siamo subito messi di fronte alla nostra miseria, alla nostra debolezza di esseri umani.
Seneca descrive questa debolezza in modo molto efficace: “Che cos’è l’uomo? Un vaso che va in frantumi al minimo urto e alla minima scossa. Non occorre una bufera per annientarlo: qualunque urto un po’ forte lo colpisca, lo disgrega. Che cos’è l’uomo? Un corpo debole e fragile, nudo, per sua natura indifeso, bisognoso dell’aiuto altrui, esposto a tutti gli attacchi della fortuna. Pasto di qualsiasi belva … incapace di sopportare il freddo, il caldo, la fatica. Si disgrega nell’inattività e nell’ozio. Un odore, un sapore, una fatica, un’insonnia, ciò che beve, ciò che mangia, tutto ciò che gli è indispensabile per vivere può ucciderlo… Non sopporta ogni clima, basta un’acqua diversa, un soffio d’aria che non gli sia familiare, il più piccolo accidente o colpo, e cade malato. Creatura guasta, inferma, che inaugura la vita col pianto, quanti sconvolgimenti tuttavia produce, lui, essere così spregevole. Quanti progetti grandiosi costruisce, lui, dimentico della propria condizione! Medita nell’animo pensieri immortali, eterni; costruisce piani per nipoti e pronipoti e, mentre si accinge a imprese così grandiose, lo sorprende la morte”[3].
La miseria umana si manifesta anche nel nostro rapporto con il tempo, come scrive Pascal: “Noi non viviamo mai il tempo presente. Anticipiamo l’avvenire come troppo lento a giungere, quasi per affrettarne il corso; oppure ci ricordiamo il passato, per fermarlo come troppo fugace. Siamo così imprudenti che vaghiamo nei tempi che non sono nostri e non pensiamo al solo che realmente ci appartiene… Questo perchè il presente, d’ordinario, ci ferisce. Lo nascondiamo alla nostra vista perchè ci affligge; e, se ci diletta, ci duole di vederlo fuggire. Tentiamo di sorreggerlo con l’avvenire e pensiamo a predisporre le cose che non sono in nostro potere in vista di un tempo al quale non siamo per nulla certi di arrivare. Ciascuno esamini i propri pensieri: li troverà sempre occupati del passato e dell’avvenire. Non pensiamo quasi mai al presente; o, se ci pensiamo, è solo per prenderne lume al fine di predisporre l’avvenire. Il presente non è mai il nostro fine; il passato e il presente sono i nostri mezzi; solo l’avvenire è il nostro fine. Così, non viviamo mai, ma speriamo di vivere, e, preparandoci sempre ad essere felici, è inevitabile che non siamo mai felici”[4].
Questi testi mettono efficacemente a nudo la nostra umana debolezza e fragilità. Tuttavia, essi fanno intravvedere anche un’altra via, un’altra prospettiva sulla natura umana. La solitudine è necessaria, poichè, come dice Seneca, noi troviamo il vero bene nell’intimità dello spirito. Infatti, rientrando seriamente in noi stessi, non scopriamo soltanto la nostra fragilità e la nostra miseria, ma anche la nostra dignità e la nostra grandezza. E a questo punto è inevitabile leggere un altro testo molto noto di Pascal: “L’uomo è solo una canna, la più fragile della natura; ma è una canna che pensa. Non occorre che l’universo intero si armi per annientarlo: un vapore una goccia d’acqua bastano a ucciderlo. Ma, quand’anche l’universo intero lo schiacciasse, l’uomo sarebbe pur sempre più nobile di quel che lo uccide, perché sa di morire, e sa la superiorità che l’universo ha su di lui; mentre l’universo non ne sa nulla. Tutta la nostra dignità sta, dunque, nel pensiero. In esso dobbiamo cercare la ragione per elevarci, e non nello spazio e nella durata che non potremmo riempire. Lavoriamo, quindi, a ben pensare: ecco il principio della morale”[5].
Questo testo è ricchissimo di spunti interessanti, ma io vorrei soffermarmi soprattutto sulla conclusione: “Lavoriamo, quindi, a ben pensare: ecco il principio della morale”. Qui viene anticipato in qualche modo il testo di Kant sull’Illuminismo citato in precedenza nel dare un rilievo essenziale all’uso della ragione che potremmo chiamare “pratica”, vale a dire come regola del nostro agire e del nostro comportamento. Naturalmente noi oggi abbiamo imparato a parlare di una ragione non astratta e disincarnata, conosciamo e apprezziamo il valore di quella che gli psicologi chiamano “intelligenza emotiva”: tuttavia il valore del frammento rimane inalterato. Questo tempo di solitudine può darci l’opportunità di imparare ed esercitare il corretto uso della ragione, proprio come principio e fondamento del nostro comportamento, perché i ragionamenti vanno sempre applicati alla vita e nella vita trovano la loro smentita o la loro conferma.
E dunque: cosa la ragione oggi ci indica, ci suggerisce per raggiungere quello che Seneca chiamava “il possesso di sè”, e nello stesso tempo per essere cittadini consapevoli e attivi in questo tempo drammatico? La lettura di Seneca suggerisce due risposte, che legano insieme la dimensione personale con la dimensione sociale e civile.
Il primo suggerimento è quello di sottoporci ogni giorno all’esame, al processo, al giudizio della nostra coscienza. Scrive Seneca nel terzo libro del suo De ira: “Finita la tua giornata, non appena ti sei ritirato nella tua stanza per il riposo notturno, interroga la tua coscienza. «Da quale male ti sei liberato oggi? Contro quale difetto hai combattuto? In che cosa sei diventato migliore?”». L’ira svanirà: diverrà più moderato chi è consapevole che ogni giorno dovrà sottoporsi all’esame di un giudice. Esiste forse abitudine più bella di questa, cioè di esaminare l’intera giornata appena trascorsa? Quale riposo seguirà all’esame di se stessi! Come sarà dolce, profondo e sereno il sonno dopo che l’animo sia stato lodato o ammonito, quando, costituitosi a giudice e a censore segreto di se stesso, avrà sottoposto ad inchiesta le proprie abitudini di vita! Io ricorro a questa possibilità e mi sottopongo a processo ogni giorno davanti al tribunale della mia coscienza”[6]. Questo concetto, che richiama il tema cristiano dell’esame di coscienza, è articolato da Seneca in un contesto laico, puramente razionalistico: è un invito a fare i conti con noi stessi. Questo tempo di solitudine e isolamento sociale diventa dunque prezioso anche perchè ci offre l’opportunità di esaminare noi stessi, di guardarci per quello che siamo veramente, al di là delle nostre maschere e di quello che vogliamo mostrare di noi. Questo tempo può aiutarci ad essere un poco più veri, almeno con noi stessi.
Ma c’è un secondo suggerimento che si può ricavare dal pensiero di Seneca, che lega la dimensione personale a quella pubblica. La ragione deve maturare in noi la consapevolezza che non siamo soli, ma siamo membra di un grande corpo che è più grande di noi. Scrive Seneca: “Tutto ciò che vedi, in cui sono racchiusi tutti gli esseri umani e divini, forma un tutto solo: noi siamo membra di un grande corpo. Per natura, facciamo parte della stessa famiglia, poichè, in quanto siamo composti dagli stessi elementi, tendiamo allo stesso fine… La nostra società è molto simile a una volta di pietre, che crollerebbe se le pietre non si sostenessero l’una con l’altra, sostenendo così tutta la volta”[7]. E ancora: “Non esiste evento, favorevole o contrario, che appartenga a uno solo di noi: si vive per la comunità. Non potrà condurre un’esistenza felice chi pensa solo a se stesso, chi cerca di piegare tutto verso il proprio utile. Devi vivere per gli altri, se vuoi vivere per te”[8].
Questo testo mi porta a pensare, in conclusione, che questo isolamento sociale, al quale facciamo fatica ad abituarci per le ragioni che ho esposto in precedenza, ha un grande senso, ha un profondo valore, ha un altissimo significato. Non è un sacrificio al quale dobbiamo a malincuore piegarci per paura di una sanzione, ma è qualcosa di profondamente sensato. È sensato prima di tutto per noi stessi, perchè ci dà l’occasione per esaminare il nostro io e guardarci in modo più realistico e profondo, per quello che siamo e non per quello che facciamo, per quello che appariamo o cerchiamo di apparire. Ma questo tempo ha senso anche per rafforzare i nostri legami con gli altri. Il paradosso è questo: stando isolati rafforziamo i legami con gli altri. Rimanendo isolati noi proteggiamo non solo noi stessi, ma anche gli altri, soprattutto le persone più deboli e indifese: in qualche modo ce ne facciamo carico, e ne diventiamo i custodi. Per questo la filosofia è importante ora: essa ci può aiutare a comprendere il senso e il valore di quello a cui siamo chiamati dalle urgenze del nostro tempo.
Anche ora possiamo essere protagonisti della nostra vita, anche ora che ci sembra di non esserlo, costretti come siamo ad obbedire a delle regole che potremmo sentire come estranee. Queste regole possiamo farle diventare nostre, possiamo comprenderne il senso e usare questo momento per crescere e per maturare. Questo periodo storico è davvero drammatico, ma anche ricco di straordinarie opportunità. Nella mia esperienza i giovani sono quelli che meglio hanno compreso questo: moltissimi tra i miei studenti, anche se sono reclusi in casa, hanno inventato e messo in atto molte iniziative buone per loro e per gli altri, approfittando di questo tempo per crescere. Non è vero che i giovani di oggi sono sconsiderati e passivi: al contrario, hanno una profonda consapevolezza di questo momento, sanno che loro saranno i protagonisti del domani e vogliono costruirlo insieme. E la filosofia può essere, per loro come per noi, un grande aiuto, una risorsa fondamentale, purchè sia una filosofia legata alla vita, legata alle esperienze e non un puro assemblaggio di argomenti e contro argomenti puramente intellettualistici che non sfiorano minimamente l’esperienza di chi scrive e pratica la filosofia.
[1] Blaise Pascal, Pensieri, Frammento 354, trad. Paolo Serini, Einaudi, Torino, 1962, p. 151.
[2] Ivi, p. 152.
[3] Seneca, Ad Marciam de consolatione, XI, 3-4.
[4] Blaise Pascal, Pensieri, cit., frammento 362, pp. 158-159.
[5] Ivi, frammento 377, pp. 161-162.
[6] Seneca, De ira, Libro III, XXXVI, 1-3.
[7] Seneca, Lettere a Lucilio, Libro XV, 95.
[8] Seneca, Lettere a Lucilio, Libro V, 48.