Originariamente l’arte ha una funzione ben precisa, distante da come siamo oggi abituati a fruirla. L’arte indiana non è solo bellezza, una capriccio estetico: è anche funzione. In sanscrito si parla di arte come cibo, anna, cioè una necessità dell’essere umano. In quanto necessità l’arte non può essere un mero capriccio estetico. Nella tradizione manca completamente una distinzione tra belle arti (figurative) e arti applicate (artigianato), così come nel latino medioevale la parola artifex vuol dire sia “artista” sia “artigiano”. Anche nel mondo indiano tutto è un unico insieme: ogni azione, karman, è chiamata ad essere investita da questa funzione dell’animo umano, la tensione spirituale dell’arte. La vita dovrebbe essere del tutto declinata in senso artistico. Le Upaniṣad dicono che non vi è una distinzione tra bene, buono e bello: dove vi è il male vi è lo sgradevole, dove vi è il buono vi è anche il bello. Un po’ come la kalokagathia del mondo greco, quell’ideale di perfezione fisica e morale dell’uomo greco.

           Nella tradizione il gusto non ha un gran peso. Dal punto di vista dello spettatore il gusto ha poco senso: a me piace, a me non piace. È vero che ogni persona, anche gli antichi indiani, ha delle reazioni sensoriali e psicologiche riguardo l’arte, ma tali reazioni, che formano il gusto, non devono essere alla base dell’osservazione del fatto artistico, il quale deve essere inteso squisitamente in base alla decifrazione del messaggio spirituale che l’arte veicola.

          Il prodotto d’arte non è solo un oggetto fisico, come una pietra, ma dietro ha un pro-getto, cioè una idea, un alone noetico che precede il fisico. Quindi lo spettatore, che consuma il cibo artistico, deve sforzarsi di andare a comprendere la linea intellettuale e concettuale che sta dietro l’opera d’arte. E come fa? Grazie alla sensibilità, a una capacità di penetrare il segno dell’opera per percepire cosa si cela dietro.

          Ma ancor prima di questo livello intellettuale vi è anche quello del tema. Qual è l’argomento che l’opera vuole trattare attraverso il suo linguaggio artistico?

          L’artista quindi parte dal tema che gli è affidato da un committente. Il committente può richiedere un’opera d’arte religiosa, come un buon Vishṇu oppure una Kali terrifica. Nella Bhagavad-Gita viene descritta la forma universale del divino, che comprende ogni aspetto, sia buono sia terrifico. 

        Poi l’artista deve “penetrare” il tema per esplicitarlo secondo categorie spirituali a lui proprie. L’artista deve entrare in connessione con l’oggetto, estraendo da quest’ultimo l’aspetto intellettuale e concettuale, secondo il sistema sociale nel quale è inserito. L’artista deve trovare nel proprio cuore l’oggetto attraverso la pratica della meditazione (samadhi). L’artista deve compiere un’operazione yogica. Lo yoga parte da un principio di gestione e cura della propria vita, del proprio comportamento: attenzione a non produrre danno. Quindi l’artista per comprendere l’oggetto è chiamato ad avere un comportamento idoneo che gli permetta di gestire la propria gestualità.

         Infine avviene l’abilità tecnica dell’artista, sequenza finale di tutto questo lavoro. Ma un’opera che sia solamente tecnica, e manchi di questa sfera interiore, è considerata di non grande qualità.

          Dal canto suo lo spettatore si trova di fronte alla rappresentazione nel suo aspetto materico immediato ed è chiamato ad interpretare le parole o le linee del pennello per andare a ritrovare quel concetto, quel pro-getto che è espressione del tema. Anche il tema non deve essere capito solo dalla immagine, ma il segno è solo un veicolo che deve portare a qualcosa di più alto. 

         Oggi viviamo in un periodo di disfacimento sociale, e l’arte è tradizionalmente un prodotto sociale, quindi l’arte odierna sta diventando da noi sempre più qualcosa di individuale, astratta, con un linguaggio solipsistico.

           Il linguaggio più proprio dell’arte è quello condiviso dalla società, anche se può modificarsi nel tempo. Per questo l’arte indiana è prettamente religiosa.

            Il modello della società vedica (daivi-varna-ashrama-dharma) è organizzato secondo quattro categorie:

  • Intellettuale, religiosa, insegnamento;
  • Difesa della comunità, sfera guerriera;
  • Produzione di cibo e di quanto necessario a una vita tranquilla, agricoltura e allevamento;
  • Manodopera, artigianato, arte figurativa.

       Questo sistema sociale è organico perché ha un centro, un fulcro energetico che tiene tutto insieme, un perno su cui le persone si uniscono. Il riferimento comune della società vedica era questo: tutti i ruoli sociali tendono ad un unico risultato, hanno al centro il divino. Ogni individuo era un raggio della ruota e il suo fulcro era Dio. Cosa è Dio per la tradizione? Dio è l’insieme di ogni espressione di bene, in sanscrito si usa la formula Bhagavān: Dio è costituito di ogni natura del bene.

          L’obiettivo di ogni azione sociale è quella di superare i condizionamenti umani e ritrovare la propria connessione con il divino.

          Questa stessa dinamica, cioè superare le identificazioni con la materia per ricongiungerci con Dio, viene espressa dall’arte, secondo la tradizione indo-vedica. L’arte deve innalzare l’uomo al divino.

         Il processo in questione ha tre tappe:

  • Allontanarsi dall’umano e dalla materia;
  • Riscoprire il proprio Sé autentico (ātman);
  • Scoprire che il Sé coincide con il divino (Brahman).

         Michelangelo diceva che l’artista deve essere puro, poiché solo così può collegarsi alle forme divine e quindi raffigurarle. Lo stesso percorso è chiamato a fare, nel mondo indiano, sia l’artista sia lo spettatore.

         L’arte è tradizionalmente una attività quotidiana. L’agire in maniera corretta e adeguata, l’azione come yoga, è considerato arte. Nella Bhagavad-Gita si dice che lo yoga è l’arte dell’agire. Un’azione che sia in spirito di offerta di sé a Dio è considerata una forma di arte. Perché? Perché Dio è il centro del nostro vero Sé.

          L’espressione del disagio non è una produzione artistica. L’artista esprime sé stesso ma in relazione al vero Sé, che è divino, carico di beatitudine, ānanda. L’artista ha una sensibilità speciale che permette di cogliere la Realtà nella sua essenza. Nella cultura indo-vedica opere come l’Urlo di Munch hanno poco senso. Per l’arte indiana non basta il talento per l’espressione ma è necessaria la vocazione al divino e alla percezione del Vero.

          L’educazione è libertà, come insegna la grande tradizione letteraria indiana. I samskara sono contenuti psichici inconsci che agiscono e che possono essere dotati di cariche emotive molto differenti, legati a esperienze di collera, di amore, di devozione, e così via, i quali spingono ad agire e sentire in modo assai diverso. Ragion per cui l’artista non deve essere solamente dotato di capacità espressive ma deve anche collegarsi liberamente a questi contenuti inconsci, patrimonio delle sue vite passate e anche dell’anima collettiva.

           A questo punto l’educazione dell’artista deve fondarsi sulla percezione dei samskara e sul potenziamento di quelli costruttivi e sulla inibizione di quelli distruttivi. Come insegna la Divina Commedia di Dante, il male deve essere usato per il suo superamento: il male deve esserci nell’anima dell’artista ma deve essere trasceso in vista della reintegrazione nel divino.

         Per la tradizione indiana un qualsiasi oggetto ha una sua forza interiore, un’anima, un contenuto psichico (pratyaya), che attraverso i sensi giunge alla mente, poi a una parte dello spirito detta buddhi, quindi può andare a riempire i contenuti della nostra esperienza totale, detta karmashaya, cioè il nostro inconscio; infine diventa un seme del nostro bagagliaio di esperienze e percezioni. Pertanto un nostro contenuto mentale, se negativo, carico di sofferenza inevitabile dovuta alla nostra storia, deve essere bonificato per far sì che non procuri danni alla nostra anima.  A questo serve la religione, quindi anche l’arte. I samskara negativi devono essere trasformati attraverso la forma artistica dotata di contenuto intellettuale-concettuale e di tema.

            Pertanto questo ruolo del divino non ha nulla a che vedere con la idea che gli occidentali si fanno di un Dio personale con la barba bianca. Il ruolo del divino è assoluto e indicibile. La stessa tradizione cristiana medioevale riferiva che Dio è radicaliter alter, del tutto diverso da tutto ciò che una creatura può pensare.

            Pertanto è difficile anche dare una definizione precisa di kami, la divinità giapponese dello shintoismo. La parola in sé potrebbe significare “ciò che sta in alto”, “con timore e rispetto”, “vedere chiaramente” o “specchio”. Si tratta di un termine che non andrebbe tradotto, poiché esso indica che l’oggetto che accompagna il kami ha una qualità di kami. Si tratta di una sfera di pensiero che un occidentale non può capire.

         Kami può riferirsi alla qualità o energia divina di luoghi e cose, alle divinità mitologiche, agli spiriti eroi divinizzati, antenati e sovrani, divinità shintoiste e buddhiste, ma kami indica soprattutto la qualità di un luogo fisico. Motoori Norinaga non offre una definizione, ma elenca esempi di ciò che i giapponesi hanno venerato come kami, affermando che essi non sono identità divine concettuali o astratte, ma realtà da esperire in maniera concreta e tangibile. I kami sono realtà di assoluto che si manifestano nel relativo.

          Vari studiosi tra cui Aston, Blacker e Taniguchi hanno tentato di raggrupparli in varie categorie: alcune di queste sono i kami della natura, personalità divinizzate e kami del Takamagahara. I kami sono anche stati divisi secondo i loro attributi: esistono kami dei luoghi, visitatori periodici, del ciclo del riso, dei fenomeni naturali o atmosferici e gli ujigami.

           I kami del Takamagahara (così è detta la residenza ufficiale degli dei) incarnano la forza vitale (tama) all’origine di tutto. Il processo che dà origine al mondo e a tutte le cose è da intendersi come processo dinamico della crescita e della propagazione dell’essere. Il concetto di essere è quindi qualcosa da paragonare all’incessante processo della forza vitale che è sempre in movimento.

           Vi sono diversi tipi di kami: gli amatsukami abitano la Piana dei Cieli. Uscendo dalla primigenie indefinita, danno forma al mondo. Alcuni di questi sono Izanami e Izanagi, Amaterasu e il fratello Susanoo. Poi vi sono gli dei della natura, tra cui lo Yama no kami, dea delle montagne e foreste, femminile, ambigua e selvaggia, e Ta no kami, a lei opposto e complementare in quanto dio delle risaie, ordinatore, panciuto, sorridente, e dalla figura fallica (rimando alla fertilità). Altri sono i Dosojin e Inari. Vi sono inoltre gli ujigami, numi tutelari di un territorio e divinità ancestrali dei suoi abitanti, affermano l’autorità e l’identità del clan.

        Kami e uomini hanno uno “spirito”, “energia vitale” che li anima, che è detta tama. Nell’uomo se ne rintraccia una buona, nigimitama, e una violenta, aramitama.

        L’efficacia del rito shintoista non è data dalla genuinità della fede ma dalla perfezione formale con cui è eseguito. Solo in seguito, con l’arrivo del confucianesimo, anche la purezza spirituale e corporale saranno requisito. Un altro aspetto importante è l’annullamento di sé, come avviene nella trance sciamanica. Questo vuol dire che il rito shintoista deve essere gradito al kami, che ne apprezza la forma, e anche il fatto che l’officiante si annulli per lasciar posto alla presenza divina.

          In questo senso il rito shintoista è una forma di arte tradizionale. Come nel mondo indo-vedico, il rito ha un aspetto fisico (la esecuzione perfetta della forma), che poi deve trascolorare in vista di una sfera concettuale, nella fattispecie quella mediata dalla trance dell’officiante, che si fa vece e presenza del divino.

             Per queste ragioni l’arte nella sua forma tradizionale è qualche cosa di assoluto. Per questo spesso una etnia ha un libro fondatore. Attraverso quelle parole, dotate di arte, il divino si manifesta e ordina quella particolare società.

             In questo senso l’arte e la società sono in strettissimo connubio. Dio, arte e società sono la stessa cosa e le persone vagano in esso, fino a che non scoprono di essere semplicemente una particella del divino che si era dimenticata la propria natura superiore.

            Per tale ragione l’arte letteraria tradizionale è fortemente simbolica e allusiva dal punto di vista fonetico. Nei Testi delle Piramidi, inscritti sulle pareti interne di quelle antiche costruzioni egiziane, i più antichi documenti religiosi dei quali siamo in possesso, ci sono spessissimo richiami sonori, giochi di parole. In tutta la mitologia egiziana avviene questo. La parola di Ra-Atum, uscendo dal suo “cuore”, ib, crea tutte le cose ma in un modo per cui esse sono connesse alla parola, perché l’atto dello sputare (ises) crea Su e quello del piangere (remi) crea gli uomini (romet). Oppure il nome di Amon (imn) sta, dura (mn) in ogni ente.

          Nel kāvya, un genere assai colto della poesia sanscrita classica, non si contano i giochi di parole. Bhāravi Kirātārjunīya XV, 14: l’autore gioca con la particella sanscrita della negazione (na): na nonanunno nunnono nānā nānānanā nanu | nunno ‘nunno nanunneno nānenā nunnanunnanut ||, “non è uomo colui che è stato sconfitto da un inferiore …”.