Nella Bhagavad-Gita è scritto che l’amore, la vera scienza della realizzazione di sé, è la conoscenza più grande. L’amore deve essere elaborato, è un’arte che si impara, come diceva anche Fromm. Sono pochissime le realtà che oggi insegnano a scoprire sé stessi. L’amore è un cammino verso il nostro ātman (anima), nel quale vi è Dio (Brahman). È un percorso per la nostra reintegrazione nel divino. L’uomo è per sua natura una entità tra terra e cielo. Ha un corpo ma ha anche un’anima, ma adesso la sua anima è corrosa dal corpo, pertanto essa deve allontanarsi dalla materia per risalire al mondo divino. Questo mondo terreno è quindi una opportunità preziosa per innalzare il nostro livello di coscienza: questa vita terrena è un laboratorio per ritornare al cielo. Lo gnosticismo ricorreva alla immagine della Perla: la realtà materiale è come se custodisse e educasse la nostra anima, la perla preziosa che, mediante le esperienze, impara a trascendere il mondo stesso. Nella Bhagavad-Gita IX. 2 è scritto in sanscrito che la scienza della propria realizzazione è pratyakṣha avagamam, dove il primo termine significa letteralmente “davanti agli occhi” e indica la possibilità di percepire o fruire qualcosa direttamente, mentre avagamam significa “acquisito, che giunge”. Pertanto il sapere assoluto, quello della nostra reintegrazione con il divino, è direttamente assimilabile. In greco corpo si dice sōma, mentre prigione è detta sēma, pertanto Platone definiva il corpo una prigione. Fin quando desideriamo possedere la materia siamo posseduti da essa. Però questo desiderio non è qualcosa di meramente superficiale. Non basta inscrivere nella mente cosciente un desiderio di spiritualità per realizzarla. Gran parte della nostra personalità, infatti, è inconscia. Lo yoga insegna che l’inconscio è il frutto delle nostre azioni passate (in sanscrito è detto karmashaya, cioè “azione”, karman + “ricettacolo”, ashaya), che in noi lasciano delle tracce, le quali vanno a costituire tale struttura psichica fondamentale. Questo inconscio determina la nostra vita, le nostre scelte: le nostre attrazioni e repulsioni, in sanscrito rispettivamente rāga e dveṣa. Siamo spinti da tali forze e lo siamo di più quanto più siamo identificati con esse. Io sono questa scelta, io sono questa attrazione, io sono questa repulsione: sono identificazioni e non vere scelte, si tratta di accumuli di esperienze che, non elaborate, ci conducono lungo il cammino della vita. Se invece iniziamo a elaborare le esperienze passate notiamo che molti elementi della nostra vita non sono il nostro vero io, il nostro vero carattere. Esiste l’anima, che è il nostro spirito più profondo, ed esiste la mente, che è invece collegata alla materia. L’intelligenza non siamo noi, è invece una energia a disposizione alla quale noi possiamo accedere per evolverci. Anche la nostra identità storica, il nostro ruolo nella vita sociale, non è la nostra vera anima, ma un agglomerato psicofisico mediante il quale ci atteggiamento. È la stessa differenza che c’è tra l’attore e l’uomo che lo personifica a teatro. In sanscrito si parla di ahamkara, dal pronome personale aham, “io”. Il nostro io sociale non costituisce la nostra vera identità, è più che altro una finzione, che Jung denota come Persona, termine che originariamente significa “maschera”. La Bhagavad-Gita rivela che la mente materiale è uno strumento molto importante per lo sviluppo dell’anima. Facciamo un esempio. Se noi scopriamo che l’io sociale è una maschera, possiamo avere una consapevolezza maggiore, che ci aiuta lungo il percorso verso la reintegrazione. Ma se ci identifichiamo in esso, ci separa da noi e dagli altri. Le Upaniṣad insegnano che vi è una strettissima unione tra noi e gli altri e tutto l’universo. Microcosmo e Macrocosmo sono la stessa cosa. La scienza dello yoga pone l’attenzione sul fatto che noi ci accresciamo se accresciamo le nostre relazioni. Lo yoga è lo studio supremo delle relazioni. La relazione più importante è quella con Dio. Questa relazione fondamentale è detta in sanscrito bhakti. Lo yoga supremo è stabilire la relazione con Dio, che in sostanza siamo noi, come insegnano le Upaniṣad. Nel Nāradabhaktisūtra 61 è scritto:

loka-hānau cintā na kāryā niveditātma-loka-vedatvāt

“Ogni dovere vedico, ogni affare mondano e la propria persona sono stati affidati al Signore, perciò non ha senso temere la perdita di alcunché”.

Nel mondo indiano Dio è Viṣṇu, da una radice sanscrita che significa “pervadere”. Dio è l’Onnipervadente, quindi tutto è nelle sue mani, pertanto chi cerca Dio non ha da temere nulla. Chi si propone di scoprire Dio, cioè in definitiva di reintegrare sé stesso in Lui, non avrà necessità di nulla, in quanto tutto è secondario. I santi cristiani lasciano tutto e spesso vanno a vivere nelle grotte, ancor più nel passato. Questi individui eccelsi testimoniano che Dio, che è in tutto e in tutti, li accoglie nella spelonca fatta di roccia come tra le mani, dolcemente. Lo stesso testo al n. 54 rivela:

guna-rahitam kāmanā-rahitam pratiksana-vardhamānam avicchinnam sūksma-taram anubhava-rūpam

“Il puro amore per il Signore nulla ha a che fare con le qualità materiali ed è separato da ogni desiderio materiale; il puro amore si espande all’infinito, è esperire mai interrotto, nulla vi è di più essenziale e sottile poiché la sua realtà è la pura coscienza”.

La mistica cristiana afferma che Dio è radicaliter alter, radicalmente diverso da tutto ciò che è umano. Quindi anche l’amore autentico che la creatura nutre nei suoi confronti non ha paragoni con il mondo materiale. Ignazio di Loyola diceva che bisogna farsi indifferenti verso tutte le cose create. Bisogna arrivare a riconoscere che, alla fine, ogni creatura è ostacolo all’unione con Dio. L’unico figlio del Buddha era chiamato Rahula, che significa legame. In questo senso i testi sacri delle varie religioni, redatti da uomini su ispirazione divina, altro non sono che canti di amore nei confronti delle divinità. I vari libri fondativi di una religione sono spesso la testimonianza di un contatto profondissimo e diretto tra l’agiografo e il dio. Ecco le parole contenute nel Rg-Veda I.165.13:

ko nv atra maruto māmahe vaḥ pra yātana sakhīm̐r acchā sakhāyaḥ | manmāni citrā apivātayanta eṣām bhūta navedā ma ṛtānām

“Chi vi ha magnificato qui, o divinità? Venite dunque come amici verso gli amici! Inspirando in me pensieri poetici, o divinità luminose, siate testimoni di queste mie opere, manifestazioni dell’ordine”.

Quindi il cantare gli dei come una espressione dell’ordine dell’universo. L’originale vedico ha ṛtānām, genitivo plurale neutro di ṛta. Questa parola sanscrita è immensa, ha la stessa radice di termini latini quali ordo e ritus. Ṛta indica l’armonia dell’universo, la quale si raggiunge anche mediante il rito religioso, infatti nel mondo vedico il sacrificio è ciò che permette la esistenza della società umana in quanto esso mantiene una funzione di equilibrio cosmico. Il poeta vedico vuole suggerire che anche la parola sacra presiede a tale funzione assoluta. Non per nulla, per la mitologia vedica, la Parola, in sanscrito Vāc, è la prima manifestazione dell’Assoluto. Come a dire che mediante la parola del poeta si ottiene anche la reintegrazione con il divino? Tale reintegrazione è per il mondo indiano il culmine e lo scopo ultimo della vita sulla terra, per i quali vige l’ordine universale. In questo passo vedico probabilmente è prefigurata la dottrina indiana del rasa, per la quale l’opera d’arte, quindi anche letteraria, ha un “succo”, una “essenza” che permette la liberazione (mokṣa). Il termine latino universus significa letteralmente “rivolto verso un’unica direzione”. Tutto l’universo complotta affinché noi raggiungiamo la felicità, quella e piena, che coincide con la reintegrazione con il divino, vale a dire la nostra effettiva realizzazione spirituale. Kremmerz scriveva che Dio non ama le pietre di cui sono fatti i pianeti, Dio ama l’uomo. Perché? Probabilmente perché solo l’uomo può amarlo, assieme agli angeli e alle altre creature intermedie. Cosa ci fa Dio di un pianeta senza l’uomo? Osea 6,6:

ḥesed hafaṣti welo zabaḥ, weda’at ‘Elohim me’olot

“voglio amore e non sacrificio,

conoscenza di Dio più di olocausti”.

La parola ebraica ḥesed è un termine importantissimo dell’Antico Testamento, indica la relazione intima tra Dio e il suo popolo. Il verbo hafaṣti, perfetto, I persona singolare, andrebbe meglio tradotto non tanto con “voglio” bensì con “ho piacere”. Dio ha piacere della relazione intima con le persone, esseri liberi in grado di sceglierlo. Il secondo membro del versetto ebraico (weda’at ‘Elohim me’olot, “la conoscenza di Dio più degli olocausti”) dice la stessa cosa ma con altre parole. Abbiamo, infatti, un parallelismo sinonimico. Nel mondo biblico “conoscenza”, in ebraico da’at, non è un sapere razionale, ma una relazione di affetto. È significativo che in egiziano antico rekh significa sia “conoscere” sia “amare”, cambiando il determinativo. Pertanto, se Dio ama la relazione è buono. La bontà di Dio è un topos della letteratura cristiana, ma non solo. Dio deve essere amato dall’uomo in quanto è amabile. Tommaso d’Aquino (Summa Theologiae I q6 a1):

Respondeo dicendum quod bonum esse praecipue Deo convenit. Bonum enim aliquid est, secundum quod est appetibile. Unumquodque autem appetit suam perfectionem. Perfectio autem et forma effectus est quaedam similitudo agentis, cum omne agens agat sibi simile. Unde ipsum agens est appetibile, et habet rationem boni, hoc enim est quod de ipso appetitur, ut eius similitudo participetur. Cum ergo Deus sit prima causa effectiva omnium, manifestum est quod sibi competit ratio boni et appetibilis. Unde Dionysius, in libro de Div. Nom., attribuit bonum Deo sicut primae causae efficienti, dicens quod bonus dicitur Deus, sicut ex quo omnia subsistunt

“L‘essere buono conviene principalmente a Dio. Infatti una cosa è buona nella misura in cui è desiderabile. Ora, ogni ente desidera la propria perfezione. Ma la perfezione e la forma di un effetto non sono altro che una somiglianza partecipata della causa agente, poiché ogni agente produce qualcosa di simile a sé. Dal che segue che lo stesso agente è desiderabile [da parte dell‘effetto] e ha natura di bene: infatti ciò che si desidera è di parteciparne la somiglianza. Essendo dunque Dio la prima causa produttiva di tutte le cose, è evidente che a lui compete la natura di bene e di appetibile. Perciò Dionigi [De div. nom. 4] attribuisce il bene a Dio come alla prima causa efficiente, affermando che Dio è detto buono ‘come colui in forza del quale tutte le cose sussistono’ “.

La fiaba del brutto anatroccolo dice che un uccellaccio poco bello si trasformò improvvisamente in uno di quei maestosi cigni che vedeva solo da lontano. Questo vuol dire che noi diventiamo ciò che desideriamo. Tale è anche l’insegnamento recondito dell’alchimia. Gli alchimisti volevano trasformare il vile metallo in oro mediante la pietra filosofale. Non ci riuscirono mai, ma attraverso quelle sperimentazioni scoprirono alcune tecniche adoperate finora, come la distillazione. Ruggero Bacone nel Medioevo riuscì a produrre il liquore benedettino, che viene consumato ancora oggi. Secondo una interpretazione, la trasmutazione dei metalli di cui parlano i testi alchemici altro non sarebbe che una metafora della trasformazione dell’animo umano. La conoscenza rende l’uomo in grado di far evolvere in meglio la propria vita. Ora, la massima conoscenza è quella che riguarda Dio. Da dove veniamo? Dove andiamo? Chi siamo? Noi siamo chi desideriamo. Se con la conoscenza impariamo le cose di Dio, allora ci reintegriamo nella natura divina. Questo suggerisce il simbolo del Caduceo Ermetico, formato da una croce attorno alla quale sono avvolti due serpenti. Il serpente è simbolo della conoscenza, e il primo indica la nostra natura materiale, il secondo quella superiore, divina, che dobbiamo “ricordare” mediante un continuo lavoro sapienziale su noi stessi. L’uomo tende alla conoscenza come tende al sole. In cinese ming significa sia “splendere” sia “capire”, ed è espresso dal carattere che raffigura il sole e la luna. Mentre, nella sua forma tradizionale, il carattere che esprime il verbo studiare, insegnare, xué, raffigura una mano che toglie le tenebre dalla testa del discepolo. È la conoscenza che organizza la realtà gettando su di essa la luce. Fromm diceva che se noi oggi vediamo un ammasso di energie fluttuanti e le interpretiamo come un tavolo, è perché la cultura ci ha insegnato a vedere in un certo modo quelle energie fluttuanti. Il mondo dei fenomeni è un continuo divenire da una cosa al suo polo opposto. Eraclito alludeva a questo mistero definendo il divenire come polemos, che in greco significa “guerra”, ma letteralmente veicola l’idea di una tensione tra molte (polus) cose diverse tra loro. Il sanscrito, lingua molto raffinata e dalla bellezza incantevole, tende a usare la parola bhavati, che significa letteralmente “diventa”, per dire “è” in senso esistenziale, mentre tende a usare il più proprio asti, “è”, in senso logico. Come a dire che il mondo è un continuo fluttuare, in sanscrito mondo è jagat, dalla radice gam, “andare”, “muovere”, quindi l’universo altro non è che “ciò che si muove, il mutevole” – tuttavia esso viene razionalizzato, categorizzato e reso profondamente fruibile solamente a livello logico, conoscitivo, speculativo. È tale la forza del sapere! È questo il simbolo alchemico del VITRIOL, acronimo dell’espressione latina: Visita Interiora Terrae, Rectificando Invenies Occultum Lapidem, “Visita l’interno della terra, operando con rettitudine troverai la pietra nascosta”. Propriamente è la conoscenza, mediante le parole dei saggi, che permette di scoprire il Vero. È questo il simbolismo del termine alchemico AZOTH, che indica “essenza” ed è significativamente formato dalle prime e ultime lettere degli alfabeti greco, latino e ebraico. La pietra occulta altro non è che Dio, scintilla che abita l’anima umana, come dicevano i mistici cristiani. Una famosa Upaniṣad mostra un discepolo che chiede al maestro chi è Dio, il saggio tramite delle spiegazioni e delle interrogazioni porta il discepolo a concludere che Dio è il discepolo stesso.