È da tempo immemorabile che si discute sulla poesia. Qual è l’essenza del linguaggio poetico? Cosa determina veramente la poesia? Probabilmente la domanda è destinata a non avere una risposta definitiva. Un elemento che possiamo addurre è che il linguaggio poetico si discosta da quello quotidiano. In che modo? Quando diciamo “il gatto corre”, abbiamo in mente grossomodo un solo significato dato alla parola “gatto” e un solo significato dato al verbo “corre”. Ci riferiamo alla azione di un gatto che a quattro zampe si dirige verso un obiettivo, rincorrendo un topo oppure scappando da un cane oppure ancora spostandosi velocemente verso i croccantini. Il rapporto tra segno e significato tende a essere univoco, anche se non è finito. Sulla base del nostro contesto socio-culturale attribuiamo a questa frase un senso grossomodo stereotipato, anche se non esaustivo. Non è esaustivo in quanto esistono molte varietà di gatti e la azione del correre può essere intesa in maniera plurima e articolata. Pensiamo anche ai rapporti di iponimia. La iponimia è una relazione di inclusione semantica: il significato di un lessema (iponimo) rientra in un significato più ampio e generico di un altro lessema (iperonimo). “Gatto”, “tigre” e “leone” sono iponimi dell’iperonimo “felino”. È facile slittare semanticamente dal “gatto” al “felino” in un enunciato ordinario, quotidiano, per esempio quando diciamo “questo gatto è come un grande felino”: facciamo slittare il significato di “gatto” allargandolo a quelle razze particolarmente robuste. E via dicendo. In questo senso ogni segno è sempre potenzialmente collegato a infiniti significati. Ma tutti tendiamo a dare un certo valore all’enunciato “il gatto corre”, quello relativo alla funzione di informare di cosa sta facendo il gatto. La vaghezza semantica di ogni tipo di enunciato è evidente anche nelle olofrasi. Per olofrase si intende una parola che riassume il significato di un intero enunciato. Sono olofrasi ad esempio “sì” e “no”. Si iniziò a parlare di olofrasi quando negli anni Sessanta lo psicolinguista Martin Braine propose la teoria secondo cui le singole parole usate nella prima infanzia comprendono funzioni comunicative ampie come una intera frase. Il bambino attraversa nei primi anni del suo sviluppo psicolinguistico la “fase olofrastica”, per esempio quando per esprimere di voler mangiare dice “pappa”. Se ci pensiamo bene, quanti possibili significati può racchiudere la parola “pappa”? Oppure le parole “sì” e “no”?  Ma non pensiamo che il livello informativo dell’enunciato abbia più significati solo a livello di singola lingua. L’infinito dell’enunciato, anche ordinario, si vede altresì dall’interlingua. Quando un discente sta appropriandosi di una lingua straniera, tende ad usare espressioni e significati diversi da quelli del parlante nativo. È la interlingua, proposta teoricamente da Larry Selinker negli anni Settanta. Non è solamente una tappa intermedia dell’apprendimento, ma una lingua vera e propria, con leggi strutturate ben individuabili. Quando si impara una seconda lingua, diversa da quella materna, si compiono quattro passi:

  • Esposizione all’input: si presta attenzione alla nuova lingua osservandone gli elementi caratteristici;
  • Analisi: si comprende come usare la nuova struttura individuata;
  • Formazione di ipotesi: si prova ad integrare la nuova struttura con quello che si sa del nuovo sistema linguistico (interlingua);
  • Produzione: si tenta di applicare la nuova struttura per verificare se le ipotesi formulate risultano valide.

 Invece, nel linguaggio poetico, che si discosta da quello quotidiano, il segno linguistico ha una potenza di infinito maggiore nel suo rapporto con il significato. Quando Dante scriveva “amor che a nullo amato amar perdona mi prese del costui piacer sì forte che ancor non m’abbandona”, egli non solo sta informando riguardo la storia di Paolo e Francesca, ma sta creando il Bello. La musicalità di questa strofa è tale da conferire ai segni linguistici molti più significati rispetto a una comunicazione ordinaria, quotidiana, stereotipata. La rima e la annominazione fanno debordare la funzione informativa verso una funzione emotiva, per cui alla fine al Sommo Poeta non interessa più informare di Paolo e Francesca bensì far sentire al cuore del lettore la potenza del sentimento amoroso. È questo passaggio dalla funzione informativa alla funzione emotiva la cifra più segreta della poesia. Ragion per cui le poesie non andrebbero mai commentate, e tanto meno dall’autore: il commento si serve del linguaggio ordinario, quello della critica, invece il poeta adotta un linguaggio emotivo, che viene evocato dall’uso delle figure retoriche, come la rima, le assonanze, le allitterazioni, le metafore, le personificazioni, gli iperbati, e così via. In secondo luogo, la poesia è opera di un illuminato, nel senso di una persona, il poeta, il quale si collega alle sorgenti segrete della creatività. Il poeta ha quella straordinaria capacità di chiudersi dal mondo circostante in sé stesso per osservare i propri moti interiori. Cosa che l’uomo della strada non fa, se non in momenti eccezionali, come nel dolore e nel cambiamento. Ma, in questo osservarsi il cuore, il poeta riesce, penetrando in sé, tuttavia a pizzicare corde che non appartengono solo alla propria individualità bensì al patrimonio del comune sentire di tutta l’umanità. E finanche questa capacità, paradossale, del poeta, non appartiene quotidianamente all’uomo comune. Ancora oggi leggiamo poesie antichissime, le quali cariche di figure retoriche, riescono a catturare la nostra attenzione e a farci sognare. La grande poesia andrebbe fruita nell’originale, la traduzione fa perdere tutta o quasi la magia del grande poeta, il quale non solo adotta procedimenti retorici ma sa altresì sprofondarsi negli abissi dell’animo umano fino a far scaturire una sorgente che abbevera ogni persona che legge le sue opere. La poesia diviene, da atto altamente individuale, a atto collettivo. Facciamo l’esempio della prima Pitica di Pindaro. Pindaro è stato un poeta greco arcaico, nato nel 518 a. C. vicino a Tebe. Egli componeva la lirica corale (che si celebrava durante occasioni solenni e era cantata a più voci). La lirica corale si esprimeva nel dialetto greco dorico (in Pindaro la coloritura dorica è molto più accentuata che in Simonide e in Bacchilide), mentre la lirica monodica in eolico e l’elegia in ionico. Pindaro è considerato da millenni uno dei più grandi poeti dell’umanità per via della potenza delle sue immagini. Scrisse moltissimo, ma ci sono giunti quasi unicamente gli epinici, composizioni della poesia greca che si cantavano in occasione della vittoria di gare atletiche. Le Olimpiche vennero scritte per i vincitori dei giochi in onore di Zeus, le Pitiche per quelli in onore di Apollo, le Nemee per i giochi che portavano quel nome, le Istmiche per i giochi in onore di Poseidone. Collocato dai filologi alessandrini al primo posto nel canone dei lirici greci e definito princeps lyricorum da Quintiliano (X 1, 61), Pindaro destò negli antichi un notevole interesse, accentuato dalla natura stessa della sua opera, connotata da sperimentalismo linguistico, oscure metafore, ricchezza di riferimenti mitologici e allusioni alla realtà performativa, che col passare del tempo diveniva sempre più evanescente. Fonte di imprescindibile importanza per lo studio dell’esegesi antica a Pindaro sono gli scolii medievali ai quattro libri di Epinici che la tradizione manoscritta ci ha conservato; accanto ad essi risulta assai prezioso anche l’apporto fornito dalla tradizione papiracea, segnatamente dai marginalia eruditi apposti su testimoni del testo pindarico e dai frammenti superstiti di hypomnemata circolanti in età imperiale. I filologi attivi all’interno del Museo di Alessandria dedicarono al poeta tebano cure ecdotiche ed esegetiche fin dal III sec. a.C.: il loro interesse verso la sua opera può essere seguito senza soluzione di continuità da quell’epoca fino all’età imperiale. Zenodoto di Efeso produsse con ogni probabilità una diorthosis: più che una vera “edizione”, essa era probabilmente una sorta di revisione del testo, frutto della collazione di più manoscritti, accompagnata da segni diacritici e brevi annotazioni in margine; alcune proposte testuali del grammatico sono menzionate negli scolii alle Olimpiche. Problemi di classificazione e ordinamento dell’opera furono affrontati poco dopo da Callimaco, il quale per primo propose una suddivisione per generi dei carmi pindarici nell’alveo dell’immenso Catalogo (Pinakes) della Biblioteca di Alessandria, da lui realizzato. La prima vera edizione critica di Pindaro, destinata a rimanere il testo di riferimento per le generazioni successive, fu approntata da Aristofane di Bisanzio, il quale si preoccupò di ripartire l’intera opera pindarica in 17 libri sulla base di criteri classificatori interni ed esterni; a lui si fa risalire anche la suddivisione in cola dei versi, originariamente in scriptio continua. Si deve invece ad Aristarco di Samotracia il primo tentativo di un’esegesi globale del testo, con la realizzazione di un commentario continuo all’edizione di Aristofane, incentrato principalmente su problemi grammaticali e in misura minore su questioni antiquarie,  mitologiche, geografiche e storiche. Accanto a queste figure, assai note nel panorama degli studi eruditi, gli scolii fanno menzione di una schiera nutrita di grammatici, sia di scuola alessandrina (come Ammonio, successore di Aristarco ad Alessandria, o gli aristarchei Aristodemo, Cheride, Menecrate, Dionisio Sidonio) sia di estrazione pergamena (come Cratete di Mallo ed il suo scolaro Artemone di Pergamo), che esercitarono la loro attività critica su Pindaro con osservazioni di varia natura (testuale, ermeneutica, antiquaria). A cavallo tra la tarda età repubblicana e gli inizi dell’età imperiale, sul Tebano lavorarono Aristonico, menzionato negli scolii e nei marginalia su papiro, Teone, del quale il POxy 2536 ci ha restituito parte di un commento alle Pitiche, e soprattutto Didimo, la cui attività segna un punto di svolta nella storia dell’esegesi antica. I suoi commentari, caratterizzati da uno spiccato interesse verso le fonti storiche e mitografiche, raccoglievano gli interventi e le opinioni dei predecessori, con i quali non di rado il filologo entrava in polemica, proponendo l’esegesi “corretta”. L’opera di Didimo, vero e proprio bacino collettore del lavorio critico-esegetico effettuato dalle generazioni precedenti, è alla base del ricco corpus di Scholia Vetera che correda nei nostri manoscritti il testo di Olimpiche, Pitiche, Istmiche e Nemee. La poetica di Pindaro è molto particolare. Presentiamo come abbiamo detto la prima Pitica (nei suoi versi iniziali):

Cetra d’oro, condiviso possesso di Apollo

e delle Muse dalle trecce viola, te ascolta

il passo di danza, principio di festa,

e i cantori secondano le tue note

quando, pizzicata, formi gli accordi

dei preludi che guidano i cori.

Tu plachi anche il fulmine acuminato

di folgore eterna, e dorme l’aquila

sullo scettro di Zeus reclinando

sui fianchi l’ala veloce,

principe degli aligeri: nube opaca

le versasti sul capo adunco, dolce serratura

delle palpebre, e mentre dorme

dondola il dorso flessuoso vinta

dai tuoi rintocchi. Persino Ares

violento dimentica la punta

scabra delle aste e scalda il cuore

di torpore. I tuoi dardi stregano anche la mente

dei numi per l’arte del figlio

di Latona e delle Muse dal profondo drappeggio (= Apollo).

Ma i viventi che Zeus non ama si spaurano udendo

l’urlo delle Pieridi (= Muse) sopra la cetra

e il mare possente, e si spaura

colui che giace nel Tartaro orrendo, il nemico degli dei

Tifone dalle cento teste, che l’antro

cilicio dai molti nomi un tempo nutrì. Ora

le scogliere cinte del mare di là da Cuma

e la Sicilia ne premono il petto

villoso, e lo schiaccia una colonna alta fino al cielo,

l’Etna innevata, nutrice perenne di ghiaccio pungente.

Sgorgano dai suoi antri sacre scaturigini di magma

inaccostabile e correnti

eruttano di giorno una scia rossastra

di fumo, ma di notte la fulva lava

rotolando travolge con fragore i massi

verso la distesa del mare profondo …

La prima Pitica celebra la vittoria nella corsa delle quadrighe ot­tenuta da Ierone, tiranno di Siracusa, a Delfi nel 470 a.C. (29^ Pitiade). L’ode è stata collocata in testa alla raccolta delle Pitiche nell’edizione alessandrina probabilmente per analogia con le Olimpiche, aperte da un epinicio per Ierone, al quale sono dedicate anche le Pitiche 2 e 3. Alla vittoria il sovrano volle dare la mas­sima risonanza: oltre a Pindaro, anche Bacchilide ricevette l’inca­rico di comporre un epinicio (Epinicio 4) e un encomio (fr. 20c). Originate dalla medesima occasione, le tre odi differiscono per dimensione e per contenuto e sembrano aver assolto funzioni complementari, richieste dalla diversa destinazione: il breve epi­nicio bacchilideo, che si risolve nell’elenco dei numerosi successi agonali di Ierone, fu verosimilmente composto ed eseguito a Del­fi nell’immediatezza della vittoria; la prima Pitica fu eseguita a Etna nel corso di una solenne cerimonia pubblica che insieme ai suc­cessi militari e agonali di Ierone celebrava la recente fondazione della città e la reggenza dei figlio Dinomene, mentre a un’occa­sione simposiale più ristretta nella medesima località sembra de­stinato l’encomio di Bacchilide. I giochi pitici, panellenici e quadriennali, erano celebrati a Pito (Delfi) in onore di Apollo, probabilmente per ricordare l’uccisione da parte del dio del serpente Pitone (figura di quel culto precedente i Greci incentrato sulla venerazione della Terra che fu sostituito dalla venerazione del dio Apollo). Inizialmente si trattava solamente di gare musicali ogni otto anni con la declamazione del nomos pitico, cioè un inno a Apollo, accompagnato dalla esecuzione mimica, che intendeva rappresentare l’uccisione del mitico serpente.  Ma gli agoni furono riorganizzati nel 582 a.C. dopo la conclusione della prima Guerra sacra per il controllo del santuario: da allora in poi vennero celebrati ogni quattro anni, tra agosto e settembre, nel terzo anno di ogni Olimpiade. Furono anche introdotte gare atletiche e ippiche, sebbene il carattere impervio del sito non consentisse la presenza di un ippodromo, perciò le gare equestri si disputavano nella piana sottostante di Crisia. Le feste pitiche non erano occasioni private, ma venivano organizzate da una città o da un santuario. Alla fine della gara si faceva una piccola celebrazione, con versi improvvisati, ma una ode come la prima Pitica, che è elaborata, veniva composta e declamata quando il vincitore ritornava in patria. Se il vincitore era ricco, si serviva di poeti eccellenti come Bacchilide o Pindaro, se invece aveva mezzi più limitati poteva accontentarsi di qualche maestro di scuola. Sono gli scolii che ci informano che la prima ode pitica di Pindaro era del 470. Essi attingevano alla lista di Pythionikai compilata da Aristotele assieme a Callistene. Aristotele e il nipote, lo storico Callistene, furono per questa attività pubblicamente ringraziati dal collegio anfizionistico di Delfi.  Le immagini di questa prima ode pitica sono assai eloquenti per bellezza e, in ciò, non necessitano di un commento. Ricordiamo che la “cetra d’oro”, chrusea formigx, può riferirsi a due strumenti musicali. C’erano infatti sia la kithara sia la lyra, meno elaborata (nei vasi dipinti il suonatore usa lo strumento più raffinato). Wilhelm von Humboldt poi aveva osservato che Pindaro ama tutto ciò che è colore e gioia, danza, movimento, festa. La parola poetica doveva essere ai tempi di Pindaro l’elemento più importante, sebbene la musica non fosse indifferente. Però con il passare dei secoli la musica si staccò sempre più dalla parola poetica fino a diventare preponderante e quindi noiosa. Abbiamo infatti una testimonianza di Pratinas (frammento di dramma satiresco), contemporaneo di Eschilo, che si lamenta, per mezzo del coro, della musica contemporanea: “Che chiasso è questo, che danze! … Dioniso appartiene a me, a me il dio appartiene” (Ateneo 14.617B). Osserviamo poi che al v. 13, quando si parla dell’Etna innevata tutto l’anno, compare un preziosismo, un dimetro coriambico, uno dei pochi casi in Pindaro (nifoess’ Aitna panetes).   Uno dei tratti distintivi della poetica di Pindaro è l’uso di iperbati molto accentuati, spesso c’è l’intreccio di più iperbati. Questo è un tipo di oscurismo, che, come altri oscurismi, è assai frequente in Pindaro. Egli in Olimpica 2 dichiarava di avere nella faretra molte frecce che “parlano a coloro che intendono”. In passato era stata per lungo tempo accettata l’interpretazione di Aristarco, per la quale Pindaro si riferiva al fatto che questi usava parole difficili e un linguaggio involuto tali da rendere necessaria la mediazione degli esegeti e dei filologi per una retta comprensione delle poesie. Secondo altri, invece, il passo di Olimpica 2 si riferirebbe al fatto che l’uditorio di Pindaro non sarebbe stato in grado di intendere le sue parole per ignoranza. Ma regge poco. Si consideri, infatti, che gli epinici erano declamati in occasione di feste pubbliche, quindi non erano rivolti solamente al vincitore, ma anche ai suoi amici, se non all’intera comunità, che certamente si sentiva partecipe della gloria dell’eccellente atleta. In questa circostanza, come notato da Bowra, il poeta elargiva a tutti la verità sulle circostanze della vittoria, allietandola con musiche e danze. Il canto di Pindaro era visto come una elargizione al popolo, che partecipava alla festa, di qualche cosa di dolce (gluku ti damosometha). Era insomma una ricorrenza festosa, che Pindaro allietava con le sue poesie, un grande evento per celebrare un concittadino vittorioso. Pertanto sarebbe stato inopportuno denunciare l’ignoranza dell’uditorio. Le performance antiche, dalle pitiche agonali al teatro, richiedevano sempre una grande partecipazione del pubblico, diversamente da oggi, nelle quali gli spettatori sono parte inerte o quasi. Pensiamo solamente al gesto dell’applauso. Perché si battono le mani? È un gesto antichissimo delle cerimonie pubbliche. Già nei salmi biblici del X secolo si battevano le mani nel tempio per inneggiare a Dio tutti insieme durante la preghiera. Salmo 47 canta espressamente: “Applaudite, popoli tutti, acclamate Dio con voci di gioia; perché terribile è il Signore, l’Altissimo, re grande su tutta la terra”. La parola ebraica riggah, tradotta dalla CEI con “gioia”, indica in realtà qualcosa di più, la “esultanza frenetica” di tutta una assemblea (cfr. Gioele 2, 10: “Davanti a Lui la terra trema”, raghizah ‘eretz). Nell’antica Mesopotamia si battevano le mani per coprire le grida delle vittime sacrificali durante i riti religiosi. Nel teatro greco significava la fine dell’azione drammatica, ma ben presto passò a esprimere approvazione, come oggi, quindi il pubblico batteva le mani, pestava i piedi e gridava. A Roma era un termometro politico: indicava il gradimento di un personaggio importante da parte del popolo, quindi divenne ben presto una imposizione quando sfilava un imperatore o un condottiero. Poteva quindi Pindaro “bacchettare” l’ignoranza dei partecipanti alla festa, se costoro erano, come erano in realtà, i “protagonisti” della stessa? Pare quindi più fondata l’interpretazione di Aristarco. Torniamo a noi. Per spiegare cosa è un iperbato, facciamo l’esempio della frase italiana: “Il gatto insegue il topo”. Questo è l’ordine grammaticale, consueto. Nell’italiano è normale che il soggetto venga prima, poi segue il verbo e quindi il complemento oggetto. Se invece alteriamo questo ordine, mettendo il verbo al primo posto, facciamo grossomodo un iperbato: “Insegue il gatto il topo”. L’iperbato ha spesso un senso. La parte del discorso che viene alterata acquisisce un significato più accentuato. Questo vale soprattutto per il greco e per il latino. Quando Catullo (LXVI 18) scriveva Non, ita me divi, vera gemunt, iuverint, l’ordine grammaticale delle parole avrebbe dovuto essere molto diverso. Catullo lo altera per esaltare il Non, messo iperbaticamente al primo posto, e quindi per accentuare la falsità del pianto delle fanciulle. Ora veniamo a Pindaro. Ci sono molti passi di questo poeta lirico che acquisiscono un senso solo se si considerano le parole non secondo l’ordine grammaticale ma secondo l’ordine iperbatico. In Pitica 1, vv. 22-23 abbiamo in greco: tas ereugontai men aplatou puros agnotatai ek muchon pagai, letteralmente “dai tuoi recessi sgorgano torrenti misteriosi di fuoco inavvicinabile”. Abbiamo l’intreccio di due iperbati:

  1. tas … ek muchon: “dai tuoi recessi”. Tas annuncia muchon da una posizione molto distante;
  2. puros e agnotatai annunciano pagai da posizioni molto distanti.

In entrambi i casi l’elemento dipendente annuncia l’elemento reggente. I giochi greci erano riservati quasi esclusivamente all’aristocrazia, comunque alla classe agiata. Come il committente dell’ode ha dimostrato doti superiori vincendo l’agone, così Pindaro dimostra di essere un poeta eccellente cantando la vittoria. Egli condivide con gli aristocratici la stessa sorte: l’immortalità! In Olimpica 9, 28 ss. viene ribadito da Pindaro che valenti e saggi hanno la stessa discendenza divina (agathoi de sophoi katà daimon’ andres eghenont’). Nell’occasione dell’ode in questione, i valenti sono senz’altro i vincitori. Infatti, attraverso la poesia accedono al ricordo dei posteri i vincitori, e di riflesso pure il poeta, che per il fatto agonale altrui ma anche per la propria bravura sarà ricordato in eterno. Ogni grande poeta ha doti superiori, in quanto riesce ad evocare emozioni che la persona comune non sa di avere, ma che, fruendo della poesia, riesce comunque a rammentare in qualche modo. In queste performance poetiche agonali colui che canta ha un ruolo attivo. È invitato alla festa come testimone di eventi eccellenti (Olimpica 4, 3: upselotaton martur aethlon) e con il suo canto fornisce al corteo festoso che accompagna il vincitore una luce che dura nel tempo (Olimpica 4, 10: chroniotaton faos). Ricordiamo che nella Grecia antica tutto era religioso, cioè non vi era uno spazio profano separato da quello sacro. Per questo anche le gare sportive erano poste sotto il patronato delle divinità. Pindaro cantava molte volte le divinità. Tra i generi della lirica corale greca abbiamo anche i ditirambi, sviluppati nell’ambito dei riti dionisiaci, aventi carattere orgiastico e caotico. In origine il ditirambo non era legato alla lirica corale ma solo ai culti dionisiaci: fu Arione di Metimna del VI secolo a.C. a connetterlo con il coro ciclico. Un altro riformatore del ditirambo fu Laso di Ermione, maestro di Pindaro, il quale introdusse il genere all’interno di non meglio specificati agoni. Non si conosce l’etimologia di “ditirambo”, forse il termine è costituito da un formante frigio assieme a un suffisso –amb di origine anatolica. Secondo la teoria classica, dal ditirambo sarebbe nata la tragedia greca. È molto famoso un ditirambo di Pindaro, il fr. 75 Sn. M (tramandato da Dionigi di Alicarnasso, De compositione verborum 22). Questa composizione fu fatta da Pindaro per gli ateniesi, come è ammiccato all’inizio. Probabilmente l’occasione fu i Thargelia, celebrati in onore di Apollo e delle Ore, e teatro di agoni dionisiaci almeno dal V secolo (ma non è certo se vi fossero già ai tempi di Pindaro). Questo ditirambo si apre con la invocazione degli dei olimpi e la descrizione della città di Atene; la seconda parte fa riferimento a Dioniso con i suoi epiteti e con la menzione di Semele, la madre del dio, morta per la nascita di Dioniso: questo decesso è collegato alla nascita del ditirambo; mentre la terza parte descrive la primavera, stagione sacra per il ditirambo, collegata alle Ore. Ecco il testo:

Qui, oh olimpi, mandate al coro grazia illustre, o dei, voi che venite al centro molto affollato e sacrificante della sacra Atene e alla piazza lavorata con molta arte e famosa; ricevete ghirlande di viole e canti offerti in primavera e, a partire da Zeus, guardatemi mentre procedo con l’ornamento dei canti in secondo luogo verso il dio coronato di edera, Bromio, che noi mortali chiamiamo Eribeo, celebrando col canto il figlio di un padre sommo e di una figlia di Cadmo, Semele. Come un vate non mi sfuggano all’attenzione le cose belle, quando, nel momento in cui il talamo delle Ore dal peplo di porpora si apre, i fiori profumati di nettare portano la primavera odorosa. Allora si gettano a terra, allora sulla terra immortale gli amabili ciuffi di violette e le rose si mischiano ai capelli, riecheggiano le voci dei canti con i flauti, i cori vanno verso Semele dalla fronte coronata di un diadema.

Splendido per immagini, come sempre in Pindaro. Anche qui si avverte il gusto pindarico per il colore, la celebrazione, il rito, il canto e la musica. Potrebbe suonare strano che un inno in onore di Dioniso inizi con l’invocazione agli dei olimpi.  Ma secondo Senofonte (Hipp. 3. 2) non è rara nei canti a Dioniso.  Commentiamo brevemente l’originale greco: deut’ en choron, Olumpioi, epi te klutan pempete charin, theoi. Alcuni manoscritti hanno, al posto di deut’, “qui”, un idet’, “vedete” (“Oh olimpi, vedete il coro, inviate grazia illustre, o dei”). In effetti la costruzione di orao + eis (= en) è testimoniata da Iliade  2. 271 (idon es plesion allon, “vedendo  l’altro vicino”) e da Pindaro (fr. 123 Sn. M:  eut’an ido paidon neoguion es eban, “qualora vedessi la giovinezza delle membra giovani dei figli”). Però oggi i filologi ritengono che la lezione più efficace sia deut’, con riferimento al luogo della performance rivolta agli dei (sarebbe caratteristico di Pindaro la menzione di elementi performativi). En choron: in greco en (in latino in) poteva essere usato sia con l’accusativo (per indicare direzione) sia con il dativo (per indicare posizione). È tuttavia la prima è una costruzione poco comune, il cui uso è peculiare nei dialetti beotici e nordoccidentali. Pindaro usa a volte en + accusativo in altri carmi (per esempio in Nemea 7, 31: pese d’adoketon en kai dokeonta, “cadde su chi non se l’aspetta e su chi se lo aspetta”). Choron potrebbe indicare sia il coro di chi canta sia il coro nel senso di luogo dove si esibisce l’orchestra nell’agorà di Atene (la interpretazione di choron come luogo in cui si danza ha paralleli in Iliade 18. 590 e Odissea 8. 260). Charin, “grazia”: è un termine assai importante nella religione greca. Indica il favore che gli dei concedono a chi si esibisce o prega: è ciò che renderà l’esibizione piacevole. Charis era anche la preparazione al matrimonio, favorita dalle divinità, della fanciulla greca. Epi pempete: normalmente il verbo composto significa “inviare”, ma a volte anche “scortare”. In questo contesto il significato è ambiguo. Infatti agli dei viene chiesto di giungere e forse di unirsi alla danza, e la charin è dovuta al loro intervento, supporto, “scorta” in senso lato. Ricordiamo che Pindaro, essendo di Tebe, nel nomo di Beozia, non poteva usare il dialetto beotico per dare diffusione alle sue composizioni. Il beotico, infatti, aveva dignità letteraria solo nella regione, quindi presentare agli ateniesi un carme in siffatta lingua sarebbe suonato come una parodia. Per questo i tratti beotici in Pindaro sono assai rari, abbiamo visto en + accusativo, ma pensiamo anche l’accusativo in –os invece del più comune –ous, l’infinito gegakein (che però potrebbe essere anche lesbico), e pochi altri esempi. La lingua letteraria di Pindaro accoglie anche qualche eolismo e gli ionismi provenienti perlopiù dall’epica. I filologi discutono se le forme eoliche (lesbiche) di Pindaro siano state introdotte da lui o da tardi redattori. Sicuramente del tebano è la terza persona plurale lesbica in –oisin, accanto al più frequente dorico –onti (-oisin è pindarico in quanto in dorico non esiste metricamente un equivalente). Quindi la poesia corale ebbe questo andamento:

  • all’inizio essa era in sostanza un dorico del Peloponneso (Alcmane), a cui erano stati aggiunti eolismi e in quantità ancor maggiore forme ionico epiche di flessione;
  • in territorio ionico le forme epiche aumentarono (Bacchilide);
  • Pindaro era cresciuto in ambiente dorico, quindi dava rilievo all’antico carattere dorico della poesia corale, pur facendo ampie concessioni alla lingua epica.

Infine precisiamo che quando si parla di “lirica dorica” si usa una espressione di comodo. In realtà è la lingua ad essere dorica, e non i poeti. Dai dori, infatti, non è venuta originariamente alcuna opera d’arte. È vero che la lirica corale era rivolta ai dori (per questo ne assunse la lingua), ma non fu scritta da dori. Stesicoro era forse di Imera; Alcmane era forse di Sardi;  Ibico era di Reggio, città ionica, doricizzata molto più tardi; Simonide e Bacchilide erano ionici; Pindaro come abbiamo detto era un beota. La sola lingua letteraria propriamente dorica è quella di Siracusa, ma essa è creazione di una colonia lontana. È che la lirica corale non era pensata per occasioni private e per mero divertimento (come invece accadde con quella eolica e quella elegiaca) bensì per occasioni ufficiali, solenni di carattere religioso. Per questo motivo ebbe tanto sviluppo nel contesto dorico: infatti presso nessuna stirpe greca quanto i dori la vita pubblica aveva tanta importanza e tanto assorbiva la vita del cittadino. Il cittadino dorico viveva in gruppi, mentre eoli e ioni avevano sviluppato una vita individuale simile a quella moderna. Dato che i dori non erano portati all’arte, assunsero artisti non dorici per innalzare a livello artistico quei generi rituali autoctoni che però erano troppo rozzi. In tale maniera nacque la lirica dorica.

Bibliografia

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