1. Il rispetto delle persone

C’era una volta il rispetto delle persone. Oggi si pretende il rispetto delle idee. È un errore epistemologico. Dal punto di vista filosofico nessuna teoria è più vacillante, per non dire sgangherata, della famosa teoria delle idee, il cui fondamento logico si è cercato invano per secoli. Basta già questo a rendere ingiustificato l’appellarsi al diritto che le proprie idee vengano rispettate. Non esistono idee che valgano più di altre, che siano più vere di altre. Il punto è che il fondamento della teoria delle idee è genuinamente pratico (in un senso – vorrei dire – kantiano), per cui il confronto delle idee serve ad evitare lo scontro fra le persone. La nozione di idea è stata utile a quell’esercizio dialettico per cui è lecito mettere in difficoltà un avversario, non è lecito zittirlo in malo modo o prenderlo a pugni.

Ripensiamo all’ira funesta di Achille che litiga con Agamennone. Dopo tutto non sono che due boss mafiosi a confronto, due capi che hanno autorità su uomini che si sentono legati a loro per una sorta di patto di fedeltà e di devozione. Bisticciano senza neppure tentare di mettersi d’accordo. Ciò perché all’epoca di Omero la teoria delle idee non aveva avuto ancora alcuna formulazione. L’idea serve a non insultare la persona, a non rivolgere improperi del tipo “non capisci nulla, sei un cretino”, sempre per rimanere a una prosa tutto sommato composta, cioè a quel lessico che è famigliare perché nel recinto chiuso di tante famiglie italiane capita che, senza veramente trascendere, la moglie esasperata si rivolga così al marito, almeno in certi casi. E il marito, se non è veramente cretino, lascia correre, facendo finta di non aver sentito.

Insomma, quando ci si “incazza” non c’è più comunicazione. L’idea, che graziosamente si interpone tra Tizio e Caio diventa terreno di indagine, di esplorazione da condursi insieme, tant’è vero che, per soverchio, ma geniale scrupolo, Aristotele dall’idea risalì al concetto, vale a dire al momento del formarsi dell’idea stessa, prima che questa prenda vita e abbia, per così dire, diritto di circolazione.

Appurato dunqe che “hai detto una scemenza” non ha lo stesso insultante significato di un “quanto sei scemo!” – detto magari con disprezzo, secondo la cadenza partenopea che, nel riferire l’epiteto, inesorabilmente scivola verso il basso – si scopre facilmente allora che chi rispetta le idee nel timore di offendere chi le afferma, è uno che delle idee non sa fare l’uso per cui sono nate. C’è anzi da dire che, trincerandosi dietro di esse, rifiuta per di più il dialogo con l’altro, quasi dicesse “con te non parlo”.

Chi dialoga appassionatamente è un consumatore di idee. Chi sta zitto e nulla oppone a chi gli propone un’idea che non condivide è un indifferente, cioè uno educato a farsi gli affari propri, uno che tinge di snobismo la sua indifferenza agli altri e che dagli altri si tiene a distanza. Ignora che l’idea è la misura della distanza dall’altro e che, lavorandoci sopra, la distanza si può accorciare. Quando aumenta, allora si parlano lingue diverse e non ci si intende. Come dire “arrivederci e grazie”.

Il punto è che le idee si scambiano un po’ come le monete e non mi pare un caso che la moneta si sia rapidamente diffusa nell’antica Grecia, che fu il centro degli scambi lungo vie, più che non  “autostrade marittime”, che in quel tempo segnavano le rotte nel Mediterraneo. Ancora oggi la pubblicità è una proposta d’acquisto di un oggetto del quale si dà un’idea piacevole, stuzzicante. In questo senso si dice anche sensatamente che delle idee si fa commercio. Proprio per questo non bisogna innamorarsene subito e, prima d’acquistare la cosa, andiamo a vederla, la osserviamo attentamente. Così, sempre per restare agli esempi, un pesce dall’occhio spento, sul quale una striminzita fontanella butta stentamente un debole fiotto d’acqua che va e viene, ha spesso, a ben guardare, perso il rigor mortis da ben più di quarantotto ore. A questo punto sospettiamo che, per quanto “fresco” nel parere di chi ce lo vende, ci siano troppi elementi per non diffidare di quanto ci viene detto. Ho in tasca moneta vera, voglio un’idea chiara circa quel che compro.

Sicché la famosa arte dialettica si sviluppò notevolmente nel mondo greco antico, proprio grazie al fatto che prendere di mira un’idea è ben diverso dal prendere di mira una persona. Può essere che nient’altro che una questione di politesse bastasse a sdoganare una “theoria” (una visione, giusto il significato originario del termine greco), decretandone una fortuna plurimillenaria? Direi di sì. Ed è in questo senso che il fondamento della teoria delle idee mi appare “pratico” kantianamente parlando. Del resto, rispetto ai filosofi che lo hanno preceduto, Kant non ragionò disinvoltamente di Dio, di Cosmo e di Anima ma dell’ idea di Dio, [dell’ idea] di Cosmo e [dell’ idea] di Anima, ben sapendo che nella civile Europa del suo tempo diverse confessioni religiose rivendicavano il diritto d’avere una propria concezione di Dio, di Anima e di Cosmo, quest’ultimo essendo, dal punto di vista di un religioso, il cosiddetto “creato”. Ragionando di tali idee, che, guarda caso, sono studiate da Kant in quell’ambito di ricerca che egli condusse nella Critica della ragion pratica, il filosofo  ottenne vari importanti risultati. Il primo fu quello di evitare di fare teologia im un’epoca in cui la teologia non poteva essere altro che confessionale, inoltre illustrò come un problema morale nella tradizione sotteso a quello teologico, fosse un problema esistenziale che può risolversi facendo di quelle idee nient’altro che ideali regolativi della ragion pratica. Si torna insomma con Kant a restituire alle idee (comprese quelle di maggior peso) un valore d’uso che non ne fa dei principi logico – metafisici ma punti di riferimento utili a guidare il nostro agire. Con ciò aprì nuovi orizzonti alla ricerca filosofica, che già prima di lui, a cominciare da Hume e quindi dai cosiddetti filosofi scozzesi, aveva rivolto la propria attenzione alle idee, limitandosi però a ricercarne la natura. La differenza è notevole se si considera che Kant apre a questo punto una nuova via di ricerca, quella per cui le “idee” sono un fatto culturale, non fisiologico. Esse non si trovano già belle che fatte in noi, ma sono frutto di elaborazione. In questo senso si spegne con Kant anche ogni polemica circa il fatto se le idee si debbano ridurre a un fatto mentale o, al contrario, materiale. Su questo punto, per esser chiari, quando si parla di fenomeno culturale, si parla di comunicazione e degli strumenti che impieghiamo per crearla, sicché le idee, compresi quelli che Kant chiama ideali regolativi della ragion pratica, sono patrimonio della collettività, la loro elaborazione essendo frutto di complesse relazioni sociali.

È sulla piazza del mercato che si impara ad avere (e a chiedere) il rispetto delle persone. Nel  cerchio chiuso che accoglie quanti pensano d’avere qualcosa in comune, si sviluppa la tendenza  al rispetto reciproco di quel che ognuno pensa, nella convinzione che si pensi tutti alle stesse cose alla luce di una teoria delle idee intesa come fondante una qualche fisiolgia del pensare. A questo punto la teoria rischia di rivelarsi una somma di pregiudizi che, non potendosi riconoscere per tali, si difendono come verità irrinunciabili e si spacciano per quello che non sono, cioè “valori”.

Qui il discorso si complica fino a diventare doloroso sul piano esistenziale, sfuggendo ai più che la fede – qualsiasi fede, che sia o non sia religiosa – è per sua natura motivo di sofferenza. Non dà né pace né requie e non escluderei che cristianamente possa dirsi che la fede è la croce che ci si porta adosso. Si pensi al principe Miskin, protagonista dell’Idiota, che, volendo migliorare, si rimprovera colpe che altri, al posto suo, non noterebbe neppure. Se questo è zelo, va anche detto che l’eroe moderno che potrebbe indicarsi nel personaggio dello sceriffo Cane di Mezzogiorno di fuoco, è chi fa il proprio dovere senza sapere perché. Max Weber direbbe che quell’uomo risponde a una chiamata. E non ha tutti i torti, ma si vede chiaramente che quella chiamata gli dà sofferenza, gli toglie la pace. Ed è questo il punto. Delle idee ci si innamora, i valori vogliono essere testimoniati, senza tante discussioni perché quando è il momento d’agire le chiacchiere sono fuori luogo. Perciò Cane sfisa la morte per salvare la propria dignità di uomo libero e di sceriffo che deve compiere il proprio dovere. In questo senso somiglia a Socrate che alla mote si rassegna per lo stesso motivo. Col che lo spettro di Socrate riemerge dal passato.

Fu Socrate a mettere sotto accusa i “sapienti”, (i sacerdoti dell’arte che professavano, fossero poeti o artisti patentati o veri e propri sacerdoti, come Eutifrone), orgogliosi d’essere depositari di un sapere, mostrando che l’arte da loro professata non riposava su certezze ma su istruzioni affinate dalla pratica. La certezza, del resto, induce all’errore.

Questa consapevolezza non ha posto radici salde nella coscienza degli europei e della cultura occidentale che ha più volte rivendicato un po’ a vanvera, l’eredità greco-romana.

Ma mi preme illustrare la situazione italiana.

2. L’Italia: uno stato laico di cittadini devoti (?) alla tradizione religiosa

Nel nostro paese la moda di rivendicare il diritto di pensarla come si vuole e di ritenere giusto che gli altri rispettino le nostre idee, si è fatta strada dopo la nascita dello Stato laico.

La cosa ha una sua ragione storica che si dice in due parole. Assai più che non la lingua a definire l’identità nazionale nei vari territori d’Europa, fu il sorgere di varie confessioni religiose, ciascuna delle quali rivendicando il diritto d’essere cristiana, implicitamente eccitava i propri fedeli all’orgoglio d’essere o i depositari della tradizione autentica, o d’aver trovato la traccia per la corretta interpertazione della spiritualità cristiana. La Francia fu dilaniata dalle guerre di religione, per poi pacificarsi come stato cattolico; la Svizzera nacque come terra del calvinismo; La Germania come terra del luteranesimo; quanto al cattolicesimo polacco ha caratteristiche così smaccatamente nazionali da essere diverso da quello romano. Lo stesso può dirsi di quello spagnolo. Non stupisce perciò che lo “stato etico”, entrasse in competizione con quella repubblica delle lettere che aveva fatto sperare in una pace perpetua, sempre rifacendosi alla filosofia kantiana. Il laicismo, come difesa del pluralismo delle idee, fu equivocato quale sciatteria, indifferenza, scetticismo e non stupisce neanche il disprezzo che Napoleone ebbe per la filosofia che al suo tempo si interrogava appunto con gli ideologues sull’ origine delle idee. A tutto questo aveva senz’altro contribuito l’infelice operazione condotta ai tempi della Rivoluzione francese quando si era introdotto il culto della dea Ragione che si rivelò essere quel che era, una toppa utile a diffondere slogan e frasi fatte, non certo una religione. In questo senso, il gacobinismo, nell’ansia d’essere popolare, non seppe fare altro se non approdare a un populismo inconcludente e contraddittorio. Inconcludente perché non portò agli esiti sperati; contraddittorio perché il culto della dea Ragione si profilò quale nuovo oppio per il popolo.

In breve, quando nacquero in Europa gli Stati democratici moderni che rivendicarono il laicismo come elemento ispiratore di una politica comune da perseguire, all’interno di ciascuno stato si provvide a definire un “ethos nazionale” del quale fossero parte integrante i “valori” della religione tradizionalmente professata.

Accadde allora qualcosa di simile rispetto a quanto era accaduto nell’Atene del V secolo a. C., quando Socrate fu sfidato a dar torto alla voce del Tempio di Apollo che aveva indicato in lui, critico sistematico della presunzione di saper di questo e di quell’altro, la persona più sapiente di tutta la Grecia. Socrate parò il colpo, spiegando in che senso, secondo lui, l’oracolo di Delfi (le cui sentenze dovevano essere da tutti accolte, pena l’essere condannati per empietà) s’era in quel modo espresso. Dove infatti gli altri si dichiaravano “sapienti” lui era l’unico a saper di non sapere.

Il laicista vero (che non è necessariamente un anticlericale, l’‘anticlericalismo essendo una critica interna alla religione, rivolta alla Chiesa, dove una Chiesa ci sia), in un mondo in cui la fede si confonde con la credulità, sapendo che non c’è modo di dirimere certe questioni, fa professione di agnosticismo. Questo suo atteggiamento suscita sconcerto e in alcuni addirittura scandalo. E scandaloso infatti apparve nell’Italia post-risorgimentale il dichiarare di nulla sapere circa Dio, l’Anima e il Creato.

Se noi agnostici non siamo stati capiti allora, oggi rischiamo di esserlo ancora di meno. Il rischio non è essere additati come persone stravaganti ma come persone senza carattere che non sanno uniformarsi a idee così saldamente diffuse e condivise da apparire che, per capriccio, non si voglia intendere quel che altri hanno inteso se non con la mente, col cuore. Sarebbe infatti il cuore, nella considerazione di tanti, ad arrendersi all’opinione diffusa secondo cui, non potendo l’intelligenza umana cogliere il “mistero dei misteri”, occorre tagliar corto e credere in Dio, nell’esistenza dell’anima, nel fatto che il mondo sia stato creato.

In questo ragionamento c’è un vizio. Non si è agnostici per presunzione ma per modestia. Io so di non sapere e non vedo perché con atto furbesco (sia pure dettato dal cuore), debba “capire” quel che non capisco anche perché nessuno ha tanta pazienza da sapermelo dimostrare. In Italia nell’Ottocento educatori, intellettuali, politici, cattolici zelanti o tiepidi che fossero, si spesero, anche se non tutti, per fare in modo che la legge non si limitasse a tutelare il diritto sacrosanto di professare la religione cattolica, ma affinché nelle scuole pubbliche si insegnasse la religione cattolica. Battaglia dura che alla fine fu vinta e l’insegnamento della religione cattolica fu introdotto nelle scuole elementari.

Che c’è di male?

Per poco che si torni all’Italia dei primi anni del Novecento, quando la discussione in materia si fece più accesa in vista della legge che fu poi votata nel 1908, le ragioni che indussero a questa scelta  appaiono oggi meno convincenti di ieri.

Una religione non si condivide studiandola ma professandola. Insegnarla a scuola non serve a niente, se non a correre il rischio di secolarizzarne i valori, con tutta una serie di equivoci dovuti al fatto che la piazza recepisce male quel che alla piazza non appartiene. Il linguaggio religioso è improprio dove si vende e si compra. Parlare di Dio in piazza significa spergiurare.

Si obietterà che la scuola non è la piazza. Ma non è neppure una chiesa. Il professore non svolge una missione ma un lavoro e al lavoro la scuola deve preparare, facendo emergere il talento vero che ciascuno studente possiede, mettendolo in condizione di affrontare la piazza.

Quanto alla religione, qualsiasi religione trasmette senz’altro un sistema di valori. Questi valori però non si trasmettono con concetti astratti, ma operando con dei simboli, che devono esser quelli e non altri, in spazi che devono esser quelli e non altri, in forme rituali che devono essere quelle e non altre. Il sacerdote, animato da una fede sincera, celebra una messa che commuove chiunque, in chiunque facendo risuonare delle corde. Veste i paramenti perché è consacrato e si muove nello spazio sacro, inibito ad altri, e prende in mano oggetti che i fedeli non sono autorizzati a toccare e trae da un libro una storia esemplare che legge e che tutti ascoltano. Ma in classe la magia di un’atmosfera carica di certe tensioni non si creerà mai per l’ottima ragione che l’aula scolastica è stata pensata con i banchi disposti in fila e la lavagna accanto alla cattedra per indurre nello studente interesse al metodo scientifico, sia pure assai latamente inteso. E non sarà allora controproducente pretendere di insegnare una religione, alla quale è auspicabile che la persona s’avvicini spontaneamente? Auspicabile, questo è il punto chiave da parte di tutti sia di coloro che quella religione professano e dei cui valori dovrebbero sentirsi custodi, nei limiti in cui ciò gli compete, sia di chi quella religione non professa o perché ne professa un’altra o perché non ne professa nessuna.

Chi abbia in famiglia ricevuto le prime cognizioni circa la religione cattolica ha familiarità con gli spazi della chiesa e con gli oggetti dell’arredo sacro, possibilmente sa dire qualche preghiera e troverà normale segnarsi con la croce. Ma chi non ha avuto modo di accostarsi a certe cose resta solo disorientato. Se poi è un bambino, può essere perfino turbato nel constatare che i suoi genitori non condividono quel che, a quanto sembra, un po’ tutti condividono. Se la famiglia appartiene a un’altra confessione religiosa potrà aver l’esonero, ma, parlando con la franchezza di chi ha il cuore in mano, se i suoi genitori sono atei o agnostici, troverà qualcuno che si preoccuperà di “convertirlo” e qualcun altro, tra i suoi compagni, che riterrà giusto emarginarlo dalla classe perché “diverso” e presumiblimente “peccatore”.

Perché queste cose non si vollero vedere? 

Nei cento e passa anni trascorsi secolarizzando in Italia lo spirito religioso, si è ottenuta un’ignoranza diffusa circa la religione cattolica di gran lunga superiore a quella di tanti agnostici. Io so che c’è differenza tra gli apostoli e gli evangelisti. E conosco i nomi degli evangelisti e anche quelli degli Apostoli. Tanti giovani che frequentano le nostre scuole no. Ho letto i vangeli e ne sono rimasto ammirato. Tanti giovani delle nostre scuole hanno difficoltà a dire in che cosa consista una parabola. So che la messa è la celebrazione del sacrificio del Cristo. So che in teoria si può pregare dappertutto, ma mi rendo conto che ci sono spazi particolarmente adatti a questo scopo, che ti invitano alla preghiera.

Tanti cattolici son convinti di poter rivolgere il loro pensiero a Dio, affermazione che – io penso –  avrebbe indignato e addolorato Dante Alighieri, autore di un bellissimo poema nel quale si racconta di un uomo che non trova le parole per pregare e alla fine di un viaggio di purificazione, trova il modo di pronunciare una delle più belle preghere che mai siano state scritte, la preghiera alla Vergine.

Su questo punto ho un ricordo di quando ero studente in un liceo romano. Il mio professore di religione, persona paziente che aveva però capito che ero stato educato ai principi del laicismo, iniziava la sua lezione in un modo il più delle volte interessante. Si poneva domande. Erano le risposte che non riuscivano ad essere convincenti. Oggi so che non era colpa sua. Un giorno entrò in classe e pose una domanda: “che cos’ è la preghiera?”. Come tanti altri, alzai anch’io la mano, ma mi fu concesso di parlare per ultimo e dissi con chiarezza quel che il professore aveva detto nel corso della lezione precedente e che cioè la preghiera è un genere letterario. Rimase stupito ma dovette darmi ragione. Oggi so, grazie a lui, perché Dante avesse cercato in Virgilio la sua guida, anche se poi Virgilio non gli basta. Tutto questo però non mi è servito per far di me un cattolico. Acquisii la nozione perché la trovai interessante. Tutto qui.

Da laico e laicista, capisco pure che è un serio problema quello di un popolo che non ha  un’educazione religiosa adeguata ai tempi in cui viviamo. Un popolo fatto di persone che biascicano preghiere di cui non conoscono il senso, che non sanno esprimere i loro dubbi, che hanno timore perfino di parlarne, quasi fosse “peccato” pensare che la Rivelazione è un fatto incredibile e cancellano addirittura dalla propria mente un pensiero che gli è stato insegnato essere “orrendo” non si sa bene da chi. Dice il mistico “credo quia absurdum”, “credo perché assurdo” espressione carica di emotività, con un “quia” il cui senso è forzato al punto da sostenere che credere comporta un paradosso. A questo paradosso, cioè al suo superamento e al suo utilizzo si può senz’altro arrivare ascoltando una messa celebrata a dovere da un sacerdote che sappia trasmettere al pubblico dei fedeli qualcosa. In quel punto e in quel momento ti senti vicino alla verità. Ma quando esci dalla chiesa e scendi i primi scalini del sagrato ti resta la memoria di un’emozione provata ma che non puoi in alcun modo comunicare a chi non fosse come te presente alla funzione religiosa.

Da questo punto di vista che la Chiesa cattolica asserisca che la Rivelazione sia stato un fatto storico va bene, fin tanto che una tale asserzione non esca dallo spazio protetto nel quale l’incredibile diventa credibile.

Nessun libro di storia riferisce del “fatto” della Rivelazione.  

Più volte ho scoperto d’essere inteso meglio nelle mie esigenze di dialogo da qualche sacerdote che non da alcuni “fedeli”, categorici nel condannare, chiusi al confronto per l’evidente ragione che sono dei rassegnati a credere, dove io non che non mi rassegno, mi assumo le mie responsabilità nei limiti in cui queste mi competono. Me la vedrò quando sarà ora con chi ci sarà, se ci sarà sperando vivamente che il mio giudice sia tanto più saggio di me da saper cogliere la sincerità di un insipiente quale sono.