È di un solo articolo, la Legge 15 aprile 2005, n. 61 Istituzione del «Giorno della libertà». 1° comma. La Repubblica italiana dichiara il 9 novembre «Giorno della libertà», quale ricorrenza dell’abbattimento del muro di Berlino, evento simbolo per la liberazione di Paesi oppressi e auspicio di democrazia per le popolazioni tuttora soggette al totalitarismo. 2° comma. In occasione del «Giorno della libertà», di cui al comma 1, vengono annualmente organizzati cerimonie commemorative ufficiali e momenti di approfondimento nelle scuole che illustrino il valore della democrazia e della libertà evidenziando obiettivamente gli effetti nefasti dei totalitarismi passati e presenti». Tutta qui. Ma è da far conoscere.

Anno 2022, 9 novembre: dunque c’è una ricorrenza prescritta da una legge dello Stato, bellamente disattesa da sedici anni, finalmente il ministro competente esorta a rispettarla, e pur tuttavia qualcuno nel mondo della scuola (docenti, qualche preside e quel solito sindacato) ha trovato modo di protestare.

Ora, chiediamoci, non è stato un avvenimento grandioso quel 9-11-1989 e non è stata un’epopea bellissima tutto quell’anno? Ma nei media e nella pubblicistica, per tacer di editoria, cinema e teatro, se ne parla pochissimo. E poi, tutto sommato, è stato inspiegabilmente pacifico il processo di liberazione di una così vasta regione del mondo; proprio l’opposto delle primavere arabe. E allora, se lo studio della Storia serve (anche) per non ripetere gli errori, perché di fronte al penoso bilancio di quest’altro ciclo storico, (le primavere arabe), è così difficile trovare qualcuno che li raffronti? (Che c’entri forse il fatto che i due processi erano sottesi da due diverse religioni con le loro relative culture?)

Non solo a noi ma pure agli immigrati (ai quali noi chiediamo di conoscere la nostra storia), pure a loro farebbe tanto bene che l’89 fosse riesumato dal dimenticatoio. Può sembrare paradossale ma proprio le persone (o i loro familiari) che più hanno sofferto sotto il comunismo, portano di questo una rappresentazione distorta. I ricordi di quella loro vita prima dell’89 sono spesso sovrapponibili: «Non c’erano molti beni di consumo ma c’era il lavoro per tutti, e così pure si aveva la casa, i beni basici, la gratuità scolastica e sanitaria, lo sport … ecc, insomma non si stava poi così male, mentre dopo, a causa delle privatizzazioni e delle classi politiche corrotte, ci è toccato emigrare». Sbalorditivo: capita che qualcuno di questi immigrati lo vedi sfilare il primo maggio con Lotta Comunista (!).

Ho parlato con molti di loro, muratori rumeni o albanesi, badanti ucraine etc): negano che cosa siano stati quei regimi. Scatta un riflesso di orgoglio nazionale: temono che ammettere un giudizio negativo su un periodo della loro storia possa significare disprezzo per l’intera propria nazione; difetta, evidentemente, quell’autostima di fondo che ha permesso al popolo germanico di meglio fare i conti col suo passato. Dunque coloro che dall’Europa orientale sono venuti in Italia hanno bisogno di recuperare la memoria degli anni che hanno trascorso sotto il cosiddetto socialismo reale. E’ nostro compito allora aiutare gli immigrati dell’Est Europa in un cammino di conoscenza: dall’oblio o, per taluni, dal negazionismo alla memoria. La ricorrenza del 9 novembre ci permette di farlo.

Tornando agli italiani, in troppi abbiamo ancora nostalgia del mito comunista. Una delle ragioni della reticenza a parlare della caduta del Muro è che non si vuol spiegare come quei regimi mal funzionavano. Proprio quando ragazzine scandinave e comici italiani propugnano la decrescita felice (per fortuna pare stia passando di moda), non trovi uno storico, un giornalista, un cineasta, che abbia voglia di spiegarci come funzionava nei suoi meccanismi concreti la allora celebrata economia a pianificazione centrale: il piano quinquennale, la statalizzazione di tutti i mezzi di produzione, la collettivizzazione della terra e via via partendo dalla normativa e dal come-avrebbe-dovuto-essere, scendere al come-era-realmente. Peculiare del totalitarismo di tipo comunista è che alla repressione della libertà, presente nel nazionalsocialismo e nei fascismi, si aggiunge il conculcamento dell’iniziativa e della creatività umana, cosa che ha comportato immani dissipazioni di risorse con l’esito immediato della penuria (fino alle carestie) e l’esito postumo del degrado ecologico.

Sperimentarono la decrescita ma non è stata felice. Quei regimi hanno devastato l’antropologia della persona, la cultura, sino al vocabolario. Basti pensare a quella locuzione che nell’Est era abituale: «Scendo a fare la coda»: una parte non piccola del tempo di vita di tutte le persone sotto quei regimi era spesa a stare in coda, spesso dalle ore notturne, per acquistare poi, non ciò che si desiderava ma ciò che quel giorno avevano portato in negozio. Ecco, chiediamo agli insegnanti della scuola italiana, che son quelli che lavorano sui nostri (sic), sui NOSTRI figli: perché avete protestato per una lettera del ministro che vi invitava a una cosa semplice e naturale, chiedeva di raccontare i fatti?