Pola è ancora terra italiana il 18 agosto 1946. Da metà giugno la popolazione viveva giorni un po’ più sereni, gli alleati avevano imposto alle truppe titine di lasciare la città, ora presidiata militarmente dagli angloamericani. Non più atti intimidatori, non più pestaggi per le strade, non più prelevamenti e sparizioni notturne degli italiani. Sulla spiaggia di Vergarolla dentro il porto di Pola, almeno 2.000 polesani gremivano l’arenile per assistere alle gare di nuoto della “Coppa Scarioni”. Poco lontano stavano ventotto mine di profondità; erano accatastate sulla spiaggia, quasi 10 tonnellate di tritolo, già disattivate e disinnescate da tre squadre di artificieri inglesi e italiani.
Alle 14,10 tutte quelle mine scoppiavano improvvisamente. Il boato si udì in tutta la città e a chilometri di distanza. L’enorme deflagrazione causò almeno centodieci morti (109 italiani e 1 inglese), sessantaquattro identificati, per molti altri fu impossibile ricomporre i poveri resti, letteralmente disintegrati dall’esplosione, imprecisato il numero dei feriti, fra le vittime molte donne e bambini, essendo presenti centinaia di famiglie. L’ospedale cittadino “Santorio Santorio” divenne il luogo principale della raccolta dei feriti: nell’opera di assistenza medica si distinse in particolar modo il dottor Geppino Micheletti, che nonostante avesse perso nell’esplosione i figli Carlo e Renzo di 9 e 6 anni, il fratello e la cognata, per due giorni non lasciò il suo posto di lavoro.
Quella di Vergarolla è dunque la prima e la più sanguinosa strage terroristica nella storia della Repubblica, più orribile di Piazza Fontana, più orribile della Stazione di Bologna. L’indagine alleata stabilì che per esplodere quegli ordigni avrebbero dovuto essere nuovamente riattivati e poi innescati, quindi in nessun modo si trattò di un incidente, ma di un vero e proprio attentato, indizi “gravi e concordanti” additavano l’OZNA, la polizia politica jugoslava di Tito, come responsabile dell’attentato. Nessun tribunale ha mai stabilito ufficialmente che cosa fosse successo, ma in tempi recenti l’apertura degli archivi inglesi di Kew Gardens (Foreign Office) ha permesso di mettere in chiaro la verità, con i nomi degli esecutori materiali.
La decisione collettiva dell’esodo qualora la città fosse stata abbandonata agli Jugoslavi era già stata manifestata prima dello scoppio, il 15 agosto festa dell’Assunta, in migliaia avevano riempito l’Arena di Pola e le strade adiacenti cantando “Va Pensiero” sventolando il tricolore. La decisione finale a Parigi non era ancora definita e i Polesani non avevano abbandonato la speranza di evitare un’occupazione straniera, tuttavia la strage convinse anche gli indecisi, qualora fossero rimasti in città che, in caso di passaggio alla Jugoslavia, la loro vita avrebbe corso un serio pericolo. L’esodo in massa coinvolse il 92 per cento degli abitanti della città di Pola. Dal resto dell’Istria sotto occupazione titina, migliaia d’italiani cercavano rifugio verso Pola e Trieste, al termine dell’Esodo lasciarono la terra dei loro padri in 350.000. Il delfino di Tito Milovan Gilas, poi caduto in disgrazia, in un’intervista rilasciata al quindicinale fiumano Panorama (21 luglio 1991) dichiarò: «Nel 1946 io ed Edward Kardelj andammo in Istria a organizzare la propaganda anti-italiana… bisognava indurre gli italiani ad andare via con pressioni di ogni tipo. Così fu fatto.» Il termine “pulizia etnica” non era stato ancora coniato. Vergarolla segnò la fine di Pola e l’inizio dell’esodo, ma fu anche la prova generale della guerra fredda a livello internazionale e dello stragismo d’Italia nei decenni a venire. Tito, dittatore comunista ma avversario di Stalin, andava blandito e così l’Occidente (Italia compresa) archiviò la mattanza. Solo nel 1997, grazie all’interessamento della piccola comunità italiana rimasta a Pola, venne collocato un cippo nel parco del Duomo, con la laconica iscrizione Vergarola – 18.08.1946 – 13 h. – Grad Pula – 1997 – Città di Pola.